Marzo 17, 2023

Le rivolte, l’addio all’Iran. Il racconto di Alessandra Campedelli

Tommaso Dotta

Quest’atleta non può esser convocata perché ha postato sui social immagini poco appropriate.

Quest’altra nemmeno perché ha le unghie smaltate di rosso


È passato un anno da quanto Alessandra Campedelli, ex allenatrice della Nazionale italiana non udenti, ha accettato l’incarico di allenare la Nazionale femminile dell’Iran.

In pochi si sarebbero aspettati quanto è poi successo nei mesi successivi al suo arrivo: il paese è stato sconvolto, a partire dallo scorso settembre, da violentissime proteste popolari scatenate dal probabile omicidio di Mahsa Amini; una donna di 22 anni morta in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo.

Le proteste si sono poi trasformate in una rivolta contro il regime teocratico che governa il paese: contro Ali Khamenei, la Guida suprema. Il regime iraniano ha risposto con la violenza: si parla di centinaia di morti, alcuni condannati all’impiccagione.

In tutto ciò, Alessandra Campedelli era a Teheran. Ha vissuto tutto in prima persona, prima di lasciare l’incarico e rientrare precipitosamente in Italia. Con la collaborazione di AIP, l’Associazione Italiana Pallavolisti, ci siamo fatti raccontare la sua esperienza.

Iran Alessandra Campedelli


«Mi aspettavo di incontrare una situazione difficile, non sono del tutto sprovveduta – anticipa Alessandra Campedelli -. Julio Velasco, che per anni è stato allenatore della Nazionale maschile iraniana, mi aveva messo in guardia. La realtà si è però rivelata ancora più complicata, perché mi sono resa conto che lui aveva vissuto l’ambiente maschile, del tutto differente».

«Mentre gli allenatori della rappresentativa maschile risiedevano all’Olympic Hotel, io in una cameretta 3 metri per 3 – continua Campedelli -. Mentre gli uomini si allenavano in palestre con aria condizionata, noi al caldo. Le atlete vivevano in una camerata da 18 letti. Non abbiamo mai avuto staff medico».

Nonostante questo la squadra, guidata da Alessandra Campedelli, ha raggiunto la finale agli Islamic Solidarity Games, un’Olimpiade a tutti gli effetti, a cui partecipano 57 paesi islamici. Hanno battuto in semifinale l’Azerbaijan, 40 posizioni più in alto nel ranking mondiale, per poi arrendersi solo alla Turchia. Un risultato storico: era dal 1986 che l’Iran non saliva sul podio.

«Abbiamo dimostrato che, lavorando bene, le donne iraniane possono raggiungere grandi risultati – commenta l’allenatrice -. Ma, per assurdo, questo traguardo ha persino complicato i rapporti con la federazione, che forse ha avuto paura del “cambiamento”»

«Il potenziale c’era tutto – racconta l’allenatrice -. L’Iran ha numeri incredibili e una passione per la pallavolo davvero sconfinata». Basti pensare che Saeid Marouf, ex palleggiatore della Nazionale iraniana maschile, ha oltre due milioni di follower su Instagram: una vera star. Per un rapido confronto, il nostro Simone Giannelli circa 380 mila.

«Non esistono però, almeno in ambito femminile, campionati giovanili né criteri di selezione delle atlete. Soprattutto, non esiste la volontà di cambiare queste condizioni».

«La Federazione pretende di metter bocca alle convocazioni con criteri davvero assurdi, dal punto di vista di noi europei. Infine mi sono resa conto che le tante donne in posizioni di potere in realtà sono messe lì per semplice facciata. Sono spesso “amiche di, nipoti di” con poca o nessuna possibilità di prendere reali decisioni».


Poi, all’improvviso, sono scoppiate le proteste.

«A me nessuno ha comunicato nulla; l’ho saputo dall’Italia – racconta Alessandra Campedelli -. La federazione negava ciò che stava accadendo. All’interno del centro sportivo in cui vivevo e lavoravo non entrava nulla: non c’era Wi Fi, tutto ciò che era cartaceo era in arabo, la televisione in persiano. Il governo ha poi bloccato la rete Internet per impedire ai manifestanti di organizzarsi».

EPA/STR

«Sono riuscita a farmi dare una macchina, ma la città era pieno di veicoli antisommossa. Non certo un ambiente per lavorare con serenità. La peggior paura delle ragazze della squadra era però venir strumentalizzate dal regime, sembrare complici del governo; e, di conseguenza, rischiare la gogna da parte della popolazione».

«La paura si è poi materializzata nella forma di un invito del presidente Ebrahim Raisi. Avremmo dovuto leggere una lettera dedicata a lui, scritta dalla federazione; proprio lui che in quei giorni aveva mandato a morte decine di ragazzi. Solo sei delle quattordici ragazze della squadra si sono presentate al pullman quella mattina. Ho deciso e comunicato che non avremmo letto alcuna lettera, mi sono preparata all’incontro con una spilla nera in segno di protesta, ma la sensazione di impotenza e frustrazione era immensa. Chi mi conosce lo sa, non sono brava a nascondere ciò che penso. Eppure in quei momenti avevo paura. È stata un’esperienza surreale».


«Sono preoccupata per aver abbandonato le mie ragazze e le allenatrici che avevano creduto in me. Io ho avuto il “lusso” di potermene andare; molte di loro no. Ci sarebbe stato davvero tanto lavoro da fare con le allenatrici locali, che non vengono messe nelle condizioni di migliorare».

«Sento però di aver imparato tanto; è stata un’esperienza formativa sotto più punti di vista. Pur consci della necessità di dar fiducia e spazio alle donne qui in Italia, non per le “quote rosa” ma per le loro effettive competenze, dobbiamo anche essere consapevoli».

«Consapevoli di quello che abbiamo, della fortuna della nostra situazione. Noi siamo liberi di parlare, ovviamente con educazione. Siamo liberi di scrivere, di scegliere cosa leggere, cosa ascoltare. Di andare in palestra uomini e donne insieme, di vestirci come riteniamo consono alla situazione. Di manifestare il nostro affetto e le nostre emozioni. In questi giorni vado nelle scuole a raccontare l’esperienza, invitando i giovani a riflettere su queste tematiche. A non darle mai per scontate».