Alessandra Campedelli: un’allenatrice italiana alla guida dell’Iran femminile
Voglia di mettersi in gioco. Desiderio di crescere. E anche una buona dose di spirito d’avventura.
Sono le caratteristiche che servono ad un allenatore per lasciare il proprio paese verso lidi esteri. Quando succede, è una notizia che fa bene a tutto il movimento.
Nelle ultime settimane ha sorpreso positivamente la scelta di Alessandra Campedelli, allenatrice trentina della Nazionale femminile sorde (vi ricordate quel meraviglioso inno di Mameli “cantato” coi segni??), di firmare per allenare la Nazionale femminile iraniana; là dove nel 2011 si era avventurato Julio Velasco, ma in campo maschile.
Le abbiamo fatto qualche domanda per sapere di più sulla sua nuova avventura.
Come sta e come è andato il primo ambientamento in Iran delle scorse settimane?
«Partirò a fine mese. Sono andata in Iran per 15 giorni durante le vacanze di Natale e in quei pochi giorni ho potuto visitare le strutture, assistere ad alcune partite della Superlega per rendermi conto del livello da cui iniziare. Ho conosciuto la Federazione e le persone con cui lavorerò. Arrivando lì ho trovato strutture molto belle e importanti per poter lavorare bene, tante atlete fra cui scegliere e allenare per migliorare qualitativamente, una Federazione che sta investendo nella pallavolo femminile. E ho conosciuto tante donne che nello sport hanno ruoli strategici e di potere decisionale».
«Ho trovato, insomma, tutti i presupposti per poter lavorare bene e quindi ho accettato questo incarico. I compiti che mi sono stati affidati sono molteplici dal momento che l’obiettivo della Federazione è quello di avvicinarsi il più possibile alle prime squadre dell’Asia, ovvero Cina, Giappone e Corea. Infatti prima di tutto allenerò la Nazionale seniores, che ha come impegno principale i Campionati Asiatici ad agosto di quest’anno. In secondo luogo, supervisionerò le attività e le selezioni delle Under 17 e Under 19, e inoltre avrò lo stimolante incarico di cercare di migliorare la qualità della pallavolo e dei tecnici in tutte le 31 provincie dell’Iran, in modo tale da far crescere il livello di base affinché si possano avere sempre più atlete che ambiscano all’alto livello».
Molti la conoscono perché è stata l’allenatrice della Nazionale sorde. Ha raccontato di essersi avvicinata a questo sport per fornire un’occasione a suo figlio Riccardo, non udente. Cosa ha significato questo per la sua famiglia?
«Riccardo è sordo da quando aveva 4 mesi ma fino a quando ha avuto 10 anni ha vissuto normalmente tra gli udenti, facendo con loro tutto il percorso scolastico. Arrivato a quell’età, mi sono resa conto che iniziava a sentirsi un pochino il “meno fortunato” tra gli udenti e ho riconosciuto in lui la necessità di conoscere e confrontarsi con altri giovani che avessero lo stesso problema. La scelta di avvicinarmi allo sport è stata quindi dettata dal fatto di trovare un contesto in cui Riccardo potesse costruirsi un’identità più equilibrata, conscia del fatto di non essere solo in questa condizione di sordità ma che tanti sono i giovani che, purché in questa condizione, si sono realizzati come persone e hanno visto concretizzarsi loro sogni».
«L’idea è nata subito in me: ho cercato di trovare all’interno del contesto sportivo pallavolistico, che lui già frequentava, quello composto da persone che avessero la sua stessa condizione. Ho cercato in Internet e ho così conosciuto la Federazione Sport Sordi Italia, a cui ho scritto e che successivamente ci ha invitato a vedere le finali del campionato nazionale maschile che si tenevano a Brescia. Subito dopo, nel 2015, mi è stato chiesto di allenare la squadra maschile Pavoni Brescia rimasta senza allenatore, e l’anno successivo anche la Nazionale femminile. Da lì è iniziato il mio percorso e parallelamente anche quello di Riccardo».
Ha conquistato con loro un titolo europeo, un argento alle Olimpiadi nel 2017 e un altro argento nei recenti Mondiali. Ma, al di là dei trofei, quali sono stati secondo lei i momenti più belli che ha trascorso insieme alla squadra?
«Le vere medaglie che ho guadagnato in questi anni in Nazionale sono state sicuramente tutte le esperienze vissute assieme a queste ragazze, gli ostacoli che abbiamo incontrato e superato sulla strada per raggiungere i trofei. Poi il fatto che, grazie a loro e a questo percorso, la visibilità che abbiamo guadagnato ci ha permesso di far avvicinare molti giovani a questa realtà prima conosciuta solo da pochi. Molte famiglie erano scettiche, la immaginavano ghettizzante, ma hanno rivisto questa idea e hanno capito che per queste ragazze la Nazionale può essere un’opportunità in più, qualcosa che va oltre allo stare con gli udenti per tutto il resto degli altri campionati».
«A questo, si aggiunge la soddisfazione di essere riuscita a creare un movimento che, quando sono arrivata, poteva contare solo su una trentina di ragazze. In questi mesi stavo preparando la squadra per le Olimpiadi di maggio: la squadra è nuovamente molto ringiovanita, partendo da quell’appuntamento si potrà dare il via ad un nuovo ciclo. Vado via, ma so di lasciare una squadra forte, che potrà dire la sua per molti anni».
Facendo un parallelismo, è molto simile agli obiettivi che mi ha raccontato su quello che sarà il suo lavoro in Iran..
«In Iran la pallavolo è uno sport nazionale, ci sono già moltissime ragazze che giocano: quello che ci sarà da fare sarà migliorare la qualità e la consapevolezza di poter raggiungere risultati. Questo all’inizio nella pallavolo sorde non c’era; abbiamo dovuto creare condizioni che in Iran già ci sono. Bisognerà metterle a frutto portando la nostra esperienza».
In carriera, ha lavorato tanto nei settori giovanili. Un ruolo bellissimo, che ti fa dare tanto, ma anche ricevere tanto. Qual è la frase o il gesto che più l’ha spiazzata (in positivo, ma magari anche in negativo) di un giovane in palestra?
«Ho lavorato nei settori giovanili per scelta. Ho sempre voluto allenare i giovani perché era il mio mondo, e al di là della nazionale sorde, quella in Iran sarà la prima esperienza che faccio per scelta al di fuori di questo settore. I riconoscimenti migliori spesso sono arrivati quando questi atleti sono cresciuti: messaggi, telefonate, gesti inaspettati da ragazzi/e che si dimostravano grati, riconoscenti, che dimostravano di aver compreso il lavoro che avevamo fatto assieme. Lo stesso è successo anche con alcune famiglie che, anche dopo qualche fraintendimento, sono tornate coscienti del fatto che si stava agendo sempre per il bene dei ragazzi e della squadra».
Come è maturata la scelta di candidarsi per la posizione di allenatrice della Nazionale femminile iraniana?
«Volevo avere un’occasione nell’alto livello e ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza all’estero. Ho saputo che la Federazione Iraniana cercava un’allenatrice e, dopo averne parlato con Julio Velasco per chiedere consiglio ad una persona che aveva vissuto quell’ambiente, ho mandato il curriculum».
«Fino a qualche anno fa tutte le mie scelte sono state intenzionalmente fatte pensando alla mia famiglia, non con la volontà di fare curriculum. 5 anni fa non avrei mai potuto perché avevo due figli piccoli che non avrei lasciato per andare in Iran, ma oggi sono grandi e hanno preso la loro strada. Nel contesto italiano, trovare una realtà che mi dia la possibilità di lavorare ad alto livello con la mia esperienza sarebbe difficile, e non posso competere con un uomo perché ho sempre fatto altre scelte. Quindi quando mi si è aperta questa possibilità, l’ho presa al volo».
Cosa le ha raccontato Julio Velasco dell’Iran?
«Julio è sempre un pozzo di informazioni e saggezza. Mi ha dato molti spunti ma senza sentenziare, lasciandomi lo spazio per fare le mie valutazioni. Le sue informazioni mi sono state molto utili nelle due settimane in cui sono stata in Iran, mi ha sempre incoraggiato a procedere per piccoli passi per superare eventuali difficoltà. È una persona su cui si può contare, che ti dice le cose in faccia ma sempre con spirito propositivo. Lui, come Angiolino Frigoni con cui ho lavorato sia in nazionale che a Verona, sono persone disponibili a spendere la loro saggezza ed esperienza per aiutare e far crescere anche gli altri».
In un’intervista al Corriere ha dichiarato “[…] in Italia le possibilità per ruoli di alto livello vengono solitamente offerte ai maschi. Alle donne restano i lavori di fisioterapista o team manager”. La sproporzione tra donne e uomini sulle panchine è effettivamente incredibile. Ha avuto modo di parlarne con altre colleghe allenatrici? Da cosa può derivare? E da dove si potrebbe cominciare, secondo lei, per cambiare la tendenza?
«La mia non vuole essere una polemica, bensì quella che faccio quando dicono che non ci sono donne nell’alto livello è una fotografia. Secondo me, a dispetto del fatto che sei uomo o donna, il trovarsi ad allenare una squadra di alto livello è una questione di merito. Ma credo che sia, in parte, anche una questione culturale. Sono poche le donne che passano gli anni della loro gioventù ad investire nella carriera da allenatrici, spesso anche perché proprio noi stesse crediamo poco in ciò che siamo. Conosco donne che secondo me avrebbero tutte le caratteristiche per andare oltre, ma magari si sono specializzate nei settori giovanili, si sono ritagliate il loro spazio di alto livello lì e non pensano ad altre esperienze. Credo inoltre che nella cultura della dirigenza ci sia l’idea che la squadra maschile la debba allenare un uomo perché ha più credibilità e pugno; lo stesso vale per quella femminile, perché si pensa che le ragazze possano seguire di più un uomo quando è duro e deciso. Più in generale c’è la credenza che sia difficile avere credibilità se non si ha un comportamento forte. Dal canto mio, sono sempre riuscita ad avere la mia credibilità pur senza urlare in faccia agli atleti».
Che cosa si aspetta da questa nuova avventura?
«Spero che questa avventura possa farmi crescere sia dal punto di vista umano che professionale. Mi aspetto di fare un’importante esperienza pallavolistica nell’alto livello, di confrontarmi con le diverse realtà iraniane, di poter imparare tanto per poi portare quanto ho appreso successivamente anche in Italia. Ce la metterò tutta affinché queste due cose possano realizzarsi».