Marzo 17, 2021

Lo sport oltre ogni ostacolo: Giulia, Silvia e il progetto Appassionarti

Alice Chiarot

Noi del mondo della pallavolo ci siamo abituati. Siamo abituati a dover sgomitare con altri sport le cui notizie hanno più risonanza delle nostre per finire sulle prime pagine sportive dei quotidiani. Solitamente succede quando raggiungiamo grandi risultati o quando un evento porta in sé un record che prima d’ora non si era mai visto.

Ma la storia non è finita qui. Anche all’interno del volley stesso c’è sicuramente un mondo tutto da scoprire, fatto di categorie giovanili, di piccole società capaci di fare grandi cose, di storie da raccontare e far conoscere. Questo accade ad esempio con il sitting volley che, con tutte le proprie forze, da un paio di anni sta cercando di raggiungere più persone possibili diffondendo i valori dell’inclusività e del riscatto.  

Tra le tante storie che si mescolano a questa disciplina e sulle quali vale la pena soffermarsi, ci sono quelle di Giulia Aringhieri e Silvia Biasi.

Giulia è livornese doc, pallavolista e mamma di Andrea: dall’età di 21 anni sta convivendo con la diagnosi di sclerosi multipl.

Silvia, pallavolista e allenatrice presso il Volley Codognè, a causa di un incidente all’età di cinque anni ha perso la mano, e per lei è come se “ci fossi nata”.

Due storie belle, limpide come la loro personalità e i loro sorrisi nel raccontare della loro disciplina e del loro progetto che da qualche settimana ha preso il via. Due storie che nella loro semplicità raccontano di una fetta di atleti che devono sudare e lavorare come tutti gli altri, se non di più, per raggiungere i propri obiettivi e che possono sicuramente essere un grande esempio per le giovani generazioni. Due storie che, nel momento storico che stiamo vivendo, meritano ancora di più di essere raccontate.


Il progetto Appassionarti

Il progetto è stato lanciato lo scorso 3 marzo dall’associazione Sintomi di Felicità in collaborazione con la Federazione Italiana Pallavolo, il Comitato Italiano Paralimpico e il Centro Protesi Inail; è nata dall’esigenza di Silvia che, proprio in vista delle Olimpiadi di quest’anno, dopo aver usato per anni una protesi estetica, ha deciso di imporre una grande svolta al suo modo di giocare, sperimentando l’utilizzo di una paletta che – come raccontato in un video pubblicato sulla pagina Facebook del contest – aveva visto utilizzare da altri atleti. Già dai primi allenamenti stabilità, tocco sulla palla e spostamenti in campo sono diventati decisamente più agevoli e comodi.

Da qui è nata quindi l’idea di lanciare il contest Appassionarti in cui le persone vengono invitate a dar spazio alla propria fantasia per ideare un disegno da applicare sulla protesi che il libero della nazionale Silvia utilizzerà alle Olimpiadi di Tokyo.


Quattro chiacchiere con Silvia Biasi e Giulia Aringhieri

Mi piacerebbe partire prima di tutto dalla vostra carriera di atlete. Come vi siete avvicinate al sitting volley e cosa ha significato e tutt’ora significa per voi e per il vostro percorso di vita questo sport?

Giulia: Ho iniziato a giocare a volley da piccolissima, in prima o seconda elementare, e non l’ho mai lasciato, fino a giocare ad un buon livello agonistico nella mia regione. A 21 anni è arrivata la diagnosi di sclerosi multipla, e ho continuato a giocare,  nonostante all’inizio ci fosse qualche titubanza sia da parte del neurologo, sia della famiglia, e molti dubbi anche miei. Ho nascosto il mio stato patologico a chiunque nelle società in cui giocavo perché avevo paura di essere esclusa ed etichettata come il “centrale, quello che c’ha quella cosa..la sclerosi”. Spesso infatti accade che la sclerosi venga scambiata per altro e non ne avevo voglia, visto che il momento era già molto difficile per me. Allo stesso tempo  però la pallavolo era un grandissimo sfogo, mi faceva sentire normale nel continuum della mia vita di ragazza molto giovane.

Mi sono avvicinata al sitting volley quando, dopo che da poco era uscita la notizia della mia patologia e io sono riuscita a togliermi la maschera portata con fatica durante quegli anni, Sara Cirelli e Giulia Bellandi, mie ex compagne di squadra di volley pisane che tutt’ora fanno parte della nazionale italiana, mi hanno contattata. Loro avendo cominciato da poco e sapendo appunto di questa notizia mi hanno voluto coinvolgere nel provare questo nuovo sport. Per me quindi approcciarmi al sitting volley ha significato fare un ulteriore passo verso l’accettazione di questa patologia: la pallavolo classica con il salto, il movimento e la corsa era quella che mi faceva sentire più normale possibile, faceva percepire il mio corpo come “normale”, non con sclerosi multipla. Per me sedersi a terra voleva dire un ulteriore cambiamento, un cambiamento anche del mio corpo nell’approcciarsi allo sport con la palla e inizialmente non è stato facile accettarlo. Però come sempre la vita ti riserva delle sorprese: ho provato a inizio 2016, e nel frattempo sono partiti anche i primi ritiri dell’anno con la squadra nazionale nata da pochi mesi. Loro sono state bravissime a coinvolgermi e a dirmi: «Si ma se sei venuta a provare nel club a Pisa, vieni a provare anche in Nazionale, magari vedrai altre persone, altra gente..». E infatti  ho provato e da lì non ho più smesso.

Ho conosciuto un gruppo di ragazze stupende e, trainata da loro che conoscevo della mia regione, ho alimentato la mia voglia di provare e continuare. Poi chiaramente è arrivata la Nazionale, il cui provino è andato bene anche perché venivo da un’ottima base tecnica e da qui è iniziata tutta la storia.

Silvia: io invece ho iniziato a giocare quando avevo 12 anni, ero in seconda media, perché mia sorella gemella e mia sorella più grande giocavano da molto più tempo rispetto a me. Ero l’unica in famiglia che ancora non faceva sport: mia mamma e mio papà hanno cercato da piccola di farmi fare qualche sport come il nuoto dove potevo andare senza protesi o la ginnastica artistica; ma la volta che sono arrivata a casa con la protesi spaccata a metà – e succedeva spesso – hanno deciso che forse era meglio che smettessi. Quindi sono rimasta ferma un periodo mentre le mie sorelle hanno cominciato a giocare a pallavolo.

Solo che mi annoiavo a stare a casa e andare a vedere le partite; ho cominciato ad insistere, così i miei hanno accettato che ricominciassi. Al massimo avremmo messo un po’ di scotch a rinforzo soprattutto del polso. Da lì è cominciata la mia carriera pallavolistica, dove mi sono fermata soltanto un anno, all’età di 22 anni, perché le giovanili nella mia società si erano ridotte a me che ne avevo 22 e il gruppo con cui mi sarei dovuta allenare che ne aveva 16/17 anni, per cui non mi sentivo a mio agio e mi sono fermata.

Ho ricominciato la mia avventura con un gruppo di amatoriali e poi, tramite un’amica, ho cominciato ad allenare il minivolley e fare i corsi per allenatori. Durante una partita in cui allenavo un gruppo di ragazze amatoriali femminili, ho avuto ricevuto un invito a prendere parte ad un progetto che stava cominciando a Treviso, che riguardava  la disciplina paralimpica della pallavolo; da lì non ho più smesso.

Mi piaceva l’idea che le persone potessero avvicinarsi allo sport nonostante la disabilità e quindi ho deciso di provare a metterci la faccia per cercare di portare quante più persone a fare sport. Speravo di essere, non dico un esempio. perché non mi piace molto attirare l’attenzione in questo senso, però far capire alle persone che non c’è nulla di male; perché lo sport è una cosa che possono e devono fare tutti, con disabilità o meno. Dopo appena due mesi con il club è arrivata la chiamata in Nazionale e da lì ho iniziato l’avventura.


Con la Nazionale avete conquistato una storica qualificazione alle Paralimpiadi di Tokyo, che per fatti noti, sono state posticipate a quest’anno. Come vi state preparando a questo importante appuntamento e cosa significherà per voi parteciparvi?

G: Nel 2020 la preparazione come per tutti gli atleti è stata difficilissima, abbiamo fatto una prima parte in lockdown via web, e questo ci ha dato un sacco di forza nel sentirci ancora unite verso un obiettivo verso cui continuavamo a credere. Mi ricordo la prima riunione web che abbiamo fatto, eravamo veramente giù di morale per il rinvio delle Olimpiadi; invece poi allenandoci insieme, facendo un programma di preparazione fisica senza palla, tutto ciò ci ha tenuto continuamente allenate e unite. Siamo arrivate a questo autunno che dovevamo reiniziare a pieno la preparazione ma ci sono stati sempre un po’ di alti e bassi causa chiusure, contagi, quindi la preparazione è stata un po’ a singhiozzo, per arrivare poi ad inizio 2021 con finalmente un programma definito, chiaro e veloce verso Tokyo.

Adesso stiamo facendo un grande lavoro in accelerazione con il nostro staff, ogni due settimane circa ci ritroviamo a Roma all’Acqua Acetosa per fare dei collegiali dal giovedì alla domenica. Abbiamo un calendario bello intenso di preparazione e poi abbiamo anche un lavoro personalizzato da fare a casa. Il momento storico non rende le cose semplici però non vediamo l’ora di scendere in campo, la voglia c’è ancora di più. Il posticipo per ogni atleta è un gran cambiamento, con un anno e mezzo di differenza sia a livello fisico che a livello di vita di cose ne succedono. La nostra forza è stata però il fatto di essere rimaste sempre molto unite; in generale se cala una di noi c’è il sostegno di tutta la squadra. Questo è quello che secondo me poi ci ha permesso veramente di raggiungere questo grande obbiettivo.

Le Olimpiadi sono penso l’obiettivo massimo per chiunque ed essendo uscite da un anno così particolare come il 2020 sicuramente Tokyo rappresenta per chiunque, a livello generale,  un riscatto e una voglia di rinascere come società, come gruppo, di tornare a una vita più o meno normale. A livello personale è un riscatto perché comunque è un po’ un dire che nonostante tanti periodi bui – la mia malattia è una malattia autoimmune cronica degenerativa, non so cosa succederà e quindi spesso mi pongo degli obiettivi anche a breve termine, è sempre un po’ una lotta – aver raggiunto un obiettivo così importante e aver mantenuto costantemente la mia forma fisica e mentale nonostante una malattia del genere, per me vuol dire veramente aver vinto un ostacolo che alcune volte sembra più grande di me. A me lo sport fa veramente un gran bene e la pallavolo mi ha salvato da tanti momenti bui che la malattia mi ha un po’ proiettato: se lei mi proiettava un po’ di buio, l’onda sportiva è stata la mia luce, la mia salvezza, quindi arrivare alle Olimpiadi per me è sicuramente il più grande obiettivo. Ho sacrificato anche molte cose, ho tolto del tempo a mio figlio, e spero che il raggiungimento di questo risultato sia anche per lui un motivo d’orgoglio per fargli pensare “anche se ha tolto del tempo a me, mia mamma ha raggiunto un grande obiettivo ed è riuscita a creare un’identità nuova, quella di una mamma forte che raggiunge quello che vuole o almeno ci prova”. Spero sia un esempio anche per lui.

S: Per quanto riguarda la preparazione, la maggior parte di noi ha anche un club dove ci si allena molto anche lì. Stiamo cercando di mantenere soprattutto la forma fisica per arrivare al meglio durante i collegiali.

Per quanto riguarda i Giochi Olimpici io invece ancora non ho ben realizzato. Sono arrivata un po’ dopo Giulia nel gruppo della Nazionale, quindi anche per quanto riguarda i primi approcci nei campionati, sia nell’Europeo del 2017 che nel Mondiale del 2018, non conoscendo bene le altre nazionali, semplicemente volevo andare in campo e spaccare tutto in sostanza. In alcune occasioni però le mie compagne mi hanno fatto tornare con i piedi a terra, facendomi rendere conto che andavamo a giocare contro squadre che ad esempio erano la prima al mondo, la seconda in Europa.. quindi io quando sono partita con la Nazionale, la mia idea era già quella di arrivare a qualcosa di grande.

L’entusiasmo si è un po’ frenato quando mi sono resa conto che effettivamente c’erano squadre molto forti da affrontare e quindi l’idea che avevo nella mia testa di Tokyo si è allontanata; invece poi, con la conquista del quarto posto ai Mondiali nel 2018, abbiamo iniziato a crederci un po’ di più e a vedere effettivamente una luce di speranza in fondo al tunnel. Avendo poi raggiunto un risultato così importante, siamo entrate a tutti gli effetti a far parte del comitato paralimpico e abbiamo cominciato a lavorare perché effettivamente questa cosa di Tokyo diventasse realtà. È successo talmente tutto in fretta nell’arco di un anno che già aver conquistato le Paralimpiadi a me fa esclamare: “Oddio che figata”.

Andare alle Olimpiadi è una grande soddisfazione perché fa ragionare sul fatto che hai comunque sacrificato del tempo in palestra da quando eri giovane – perché quello che so fare io oggi a sitting è il frutto di quello che io ho imparato da quando ho 11 anni ad oggi – ed è proprio il segno che tante volte il lavoro paga, perché tutta la preparazione fatta è quello che mi serve per per riuscire ad ottenere un risultato.


Quali sono i vostri obiettivi per il futuro?

G: Tutto quello che è stato rimandato in questo anno e mezzo, ci sarà tutto nel prossimo anno. Quindi noi abbiamo già degli obiettivi scadenzati, perche il mese successivo a Tokyo, ci aspettano prima gli Europei e poi anche i Mondiali.

S: A livello di podio abbiamo questi due programmi già ben fissi nella nostra mente: per gli Europei ci sarà sicuramente il tentativo di fare meglio degli ultimi, per i Mondiali sarebbe importante sicuramente qualificarsi entro le prime quattro ma anche cercare di fare qualcosa di meglio. Tutta la preparazione che stiamo facendo adesso e l’esperienza che sarà andare a Tokyo, sarà un bel bagaglio di esperienza per riuscire a portare a casa anche qualcosa di più importante. L’obiettivo è quello di crescere ancora di più, dobbiamo fare ancora meglio.

Come nasce il progetto Appassion-Arti che avete lanciato lo scorso 3 marzo e in che cosa consiste? Qual è lo scopo di questo progetto?

G: Il progetto nasce in modo molto spontaneo, io e Silvia ci siamo trovate immediatamente d’accordo sull’idea iniziale. Lei stava lavorando insieme al centro protesi ad una nuova protesi che l’avrebbe aiutata a migliorare la sua performance sportiva. Ma anche l’occhio vuole la sua parte e scherzando sul fattore estetico è venuta fuori l’idea. Da cosa è nata cosa e a me e Silvia è venuto in mente di aprirci a tutti, e quindi di offrire la possibilità di proporre un disegno per la tela di questo quadro, ovvero la protesi.

L’intento, oltre a trovare chiaramente il disegno per la protesi, è anche quello di far parlare di sport paralimpico e di passione. Il passaparola è fondamentale: il nostro scopo è proprio quello di coinvolgere le persone all’interno di concetti così importanti oggi, e soprattutto di arrivare ai ragazzi, facendogli conoscere nuove discipline, nuove realtà, nuove persone. L’educazione artistica e quella sportiva motoria sono fondamentali.

S: L’idea tendenzialmente, come ha già detto Giulia, era quella di far parlare di noi e abbiamo pensato che la cosa migliore sarebbe risultata proprio quella di mettere in campo le persone a fare qualcosa di attivo e creativo per noi. L’idea quindi di sviluppare il contest è stata una delle idee vincenti per arrivare a far parlare di noi nel modo giusto. Dopo averlo aperto, abbiamo dato la palla in mano a chiunque voglia darci un contributo creativo nel cercare di raffigurare proprio quello che noi rappresentiamo come squadra, come gruppo di persone che si trovano e che vogliono raggiungere una conquista comune. In questo disegno cerchiamo una serie di linee e colori, di frasi, delle immagini realizzate con l’acrilico, la china, l’acquerello ma spazio alla fantasia, che possa rappresentare questo nostro cammino fino ai giochi paralimpici di Tokyo. Il disegno poi verrà fuori relativamente attorno ai 20 cm di larghezza. Ci aspettiamo delle belle idee.

Abbiamo dato tempo fino al 14 di aprile per raccogliere tutte le immagini, dopodiché queste verranno esposte su Instagram e su Facebook  dove le persone potranno esprimere la propria preferenza. Quando avremo le prime 6, sceglieremo il vincitore di squadra. Per il momento già siamo riuscite ad entrare in qualche scuola, ma speriamo poi di riuscire a sfondare ancora di più raggiungendo più giovani possibili.

Il sitting volley, come tante altre discipline paralimpiche, è uno sport di cui si parla ancora poco. Cosa pensate si possa fare affinché l’attenzione si concentri anche su questi sport che portano in sé un messaggio così importante come quello di inclusione e di disabilità?

G e S: Qualcosa sta già funzionando per fortuna visto che ogni anno sta crescendo il numero di squadre di sitting volley. In tre anni infatti i numeri si sono alzati sia in ambito maschile che in quello femminile. Sicuramente essere parte della Federazione Italiana Pallavolo per noi è un veicolo importantissimo – ci facciamo parte ormai da diversi anni –, siamo uniti alla pallavolo giocata in modo classico e non siamo una divisione di essa. Per il nostro movimento inoltre è molto importante anche il loro lavoro di comunicazione che coinvolge un bacino di ragazzi enorme; alla grande importanza che per il nostro movimento ha il lavoro della federazione, si aggiunge anche quello del comitato paralimpico, così come poi scendendo il lavoro a livello regionale e provinciale e a livello scolastico. Pensiamo sia importante anche formare i professori, fare progetti, formare le persone a far conoscere questo sport perché effettivamente ancora oggi ci ritroviamo davanti a facce esterrefatte che ci chiedono “pallavolo che? Sitting che?”.

Questa cultura sportiva è ancora molto indietro: lavorare sui giovani, che saranno il nostro futuro, è fondamentale. Anche il web e la comunicazione online ormai, soprattutto dopo quest’era Covid, sono veicoli fondamentali. Infine, anche da come andrà Tokyo il sitting volley avrà più o meno risonanza.

Le vostre storie sono un bell’esempio di riscatto, di rivincita nei confronti di eventi o coincidenze sfortunate che hanno toccato la vostra vita. Che messaggio vi sentite di lanciare alle tante persone, ma soprattutto ai tanti giovani, che si trovano ad affrontarle come voi?

S: Diciamo che la problematica che noi stiamo affrontando secondo me come generazione, come momento storico, in questo momento sia la difficoltà di riprendere. Chiaramente dopo tutto questo periodo in cui la maggior parte delle discipline è rimasta ferma, non si può uscire, non si può fare niente, non ci si può incontrare, ha fatto si che la maggior parte delle persone per riprendere a fare quello che faceva prima di tutto questo faranno molta difficoltà. Per il mondo della disabilità poi è ancora peggiore perché la maggior parte delle volte le persone si ritrovano a non sapere concretamente che cosa fare: se sono una persona che ha voglia di impegnarsi, cerco in internet, cerco di capire; se invece non sono una persona che ha questa capacità, tendenzialmente sto seduto a casa e penso a ciò che mi piacerebbe fare. La difficoltà maggiore è quella di tornare fuori di casa, ora come non mai sarà uno scoglio ben alto da superare. Però c’è da dire che piano piano, io sono fiduciosa, con un po’ di pazienza, la gente ricomincerà ad essere se stessa e a fare quello che faceva prima.

Quello che io mi sento di dire a tutti quanti è che molte volte la disabilità ce la facciamo noi nella nostra testa, siamo proprio noi che ci poniamo dei limiti che sono tranquillamente sormontabili, provando ad adattarsi in qualsiasi modo. Chiaramente ci sono diversi tipi di disabilità, però tante volte sono proprio le persone stesse che frenano; quello che mi sento di dire è che la prima cosa da fare è quella di essere convinti noi che disabilità è soltanto una parola.

G: Sono d’accordo con quello che ha detto Silvia. Io mi sono sentita tanto sola nella mia malattia e, per me, lo sport e la pallavolo sono stati il mezzo per farmi sentire meno sola. Questo Covid, per chi ha una problematica che può essere di qualsiasi tipo, ci ha fatto sentire ancora più soli, chiusi nelle nostre case, dietro una videocamera.. quindi questo ulteriore stato di solitudine, di distanza ha solo alimentato e aumentato questo stato che io ho provato per tanto tempo. Quello che posso consigliare io è di condividere, aprirsi, trovare almeno una persona con cui parlarne, vincere la paura almeno un pezzettino alla volta. Ti porto proprio un esempio di questo che ho avuto modo di vivere sulla mia pelle: qualche tempo fa ho conosciuto una ragazza di nome Francesca, ex pallavolista, affetta da sclerosi. A causa della malattia aveva mollato tutto ma tramite uno scambio di parole con me ha cominciato ad aprirsi e due settimane fa ha fatto il suo primo allenamento di sitting volley a Milano. Lei oggi è entusiasta, non riesce a credere in se stessa, sta cercando di adattare il suo nuovo fisico a questo sport. Per  me questa cosa è stupefacente, mi fa credere che anche quest’era Covid ha portato qualcosa di buono.