Ottobre 1, 2021

Vita da allenatore. «Serve coerenza fra modo di essere e di allenare»

Alice Chiarot

Almeno una volta, ad ognuno di noi sarà capitato di sentirsi un po’ un allenatore, soprattutto “da divano”.

Una partita alla televisione, una comoda seduta con qualcosa di fresco da bere in mano e qualcosa da mangiare nell’altra, ancora meglio se fatto in compagnia. All’ordine del giorno i commenti pre, durante e post partita oltre a qualche urla verso lo schermo della televisione; in caso di sconfitta nessuna pietà. Da quando poi siamo entrati nell’era social allo sfogo con il vicino si sono aggiunti i giudizi scritti nella sezione commenti dei vari gruppi. In questa estate poi, fra Europei e Olimpiadi, potremmo aver dato il meglio di noi.

Ma essere coach, soprattutto di uno sport di squadra come il nostro è tutt’altro che semplice, a qualsiasi livello.

Julio Velasco, in un’intervista alla Repubblica nel giugno 2019 rispondendo alla giornalista Valentina De Salvo ce lo spiega molto bene: «Allenare non è una scienza, è un’arte. […] La parola chiave è equilibrio: tra autorità e comprensione, per esempio. Non trovi mai un punto giusto, è una ricerca continua, devi essere motivato. […] Tu crei emozioni, non trasmetti solo nozioni: e questo va allenato, perché c’è anche un’intelligenza emotiva. Se sei pessimista fare l’allenatore è quasi impossibile. L’ottimismo serve. […] c’è poi anche l’altra squadra, non basta fare le cose bene, dobbiamo farle meglio degli altri. […] ».

Una professione poliedrica

Essere un allenatore di pallavolo non vuol dire, quindi, semplicemente sedere in panchina e dare indicazioni ai giocatori in campo. Essere un allenatore di pallavolo vuol dire prendersi a cuore un gruppo di giocatori e pazientemente, giorno dopo giorno, farli crescere fisicamente, tecnicamente e psicologicamente, partecipando a questo processo in prima persona. Vuol dire avere il coraggio e scegliere di metterci la faccia in ogni occasione, ma soprattutto nei momenti più difficili, e sentire la responsabilità del proprio ruolo. 

Per fare questo, come in tanti altri contesti, ci vuole sicuramente passione: ore ed ore passate in palestra a organizzare gli allenamenti assieme a tutti gli altri professionisti, a vedere e rivedere i video per studiare gli avversari e preparare la partita, a correggere gli errori fin nei minimi dettagli sono parte di un lavoro che trova la soddisfazione più grande nel raggiungimento degli obiettivi prefissati a inizio stagione.

Essere coach quindi non significa solo insegnare i fondamentali di questo sport –  sono diversi i corsi che un allenatore deve seguire e superare per allargare il proprio bagaglio professionale, nonché per poter allenare nelle diverse categorie – ma in particolare essere un punto di riferimento per tutta la squadra. Nei momenti di difficoltà questa figura dev’essere in grado di dare una scossa alla squadra, alle volte tirando fuori la voce con forza; deve essere abile nel cambiare schema e correggere il tiro in caso qualcosa non stia andando per il verso giusto, chiamare i timeout nei momenti più delicati, sapere quali giocatori sostituire e con quali intrattenersi per dare indicazioni nel corso di una partita. Avere carisma aiuta. L’intuizione giusta al momento giusto durante una partita, può far vincere anche un’Olimpiade.

La scuola italiana rispetto a tutto questo, ne sa qualcosa. In questi anni infatti abbiamo visto sempre più allenatori del nostro paese andare all’estero o essere chiamati alla guida di diverse Nazionali estere. Per fare solo alcuni nomi, visti durante i recenti Europei, Santarelli con la Croazia, Guidetti con la Turchia, Busato con la Russia, Giani con la Germania.


Quattro chiacchiere con Fabio Soli, allenatore della Top Volley Cisterna

Prima di essere un allenatore, sei stato un giocatore di pallavolo. Quali ricordi conservi della stagioni trascorse in campo?

Sono stato un giocatore diciamo non di così alto livello, come invece adesso ho la fortuna di poter essere nel ruolo di allenatore. Sono riuscito a fare un po’ di serie A, un po’ di A2, la serie B. Il ricordo che ho è bellissimo perché sono riuscito a fare di una passione il mio mestiere, e fortunatamente sono riuscito a fare di quello che era il mestiere di giocatore, continuare questa passione come allenatore. Il poter vivere, vedere ed assaporare il mondo della pallavolo in ruoli diversi, prima da ragazzino innamorato di questo sport e che andava in palestra per la semplicissima gioia di farlo, poi riuscire a farlo come mestiere da giocatore e adesso riuscire a dare una continuità sempre ad alto livello come allenatore.

Fabio Soli pallavolo

Che cosa ha significato per te il passaggio dal ruolo di giocatore a quello di allenatore? Era qualcosa che il giovane Fabio Soli aveva nei programmi?

Il pensiero di dare continuità, quindi di potermi preparare anche ad un futuro postumo al gioco vissuto in campo, ce l’ho sempre avuto. Infatti ho cominciato prestissimo ad informarmi, poi a formarmi, sia prendendo i gradi d’allievo, il primo, il secondo e poi il terzo, fin da quando ero giovane giocatore, perché appunto l’idea era quella di potermi formare finché potesse la pallavolo restare nella mia vita, anche in una forma differente rispetto a quella da giocatore. Poi, da lì a dirti che il mio obiettivo era quello di fare l’allenatore di alto livello, ti dico di no, l’obiettivo però era di fare l’allenatore.

A quello ho aggiunto anche il percorso di Scienze Motorie perché il mondo dello sport è sempre stato nella mia testa e nel mio cuore, e una volta smesso di giocare ho voluto provare a rimanere nel mondo dello sport non specificatamente come allenatore di alto livello ma come professionista dello sport. La formazione a 360° poteva prevedere il preparatore atletico, piuttosto che l’allenatore, piuttosto che il preparatore atletico in un altro sport: la mia formazione l’ho voluta fare proprio in questo senso, ampia, per poter andare incontro a quello che poteva offrirmi il mondo dello sport in generale.

Come sei cresciuto negli anni nel ruolo di allenatore e cosa hai imparato stagione dopo stagione? L’esperienza all’estero cosa ha portato al tuo bagaglio umano e professionale?

Credo di aver avuto la possibilità di fare un percorso che reputo essere stato molto graduale, che mi ha portato dallo smettere di giocare al momento giusto della mia carriera, all’approfittare di un’occasione che mi è stata data da Bruno Da Re a Modena come assistente, poi come secondo allenatore, come allenatore di diverse figure di altissimo profilo come Bagnoli, Prandi, Daniel Castellani all’estero, esperienze di altissimo livello in Italia ma non solo, la possibilità di provarmi e provare con le mie gambe da primo allenatore in A2 in Italia e poi dopo in A1. È stato un percorso a crescere, ricco di tante esperienze che mi hanno fortunatamente dato tantissimo.

Quando hai la possibilità di vivere ambienti differenti, Italia ed Estero, tanti allenatori differenti con stili di condotta differenti, modi di pensare alla pallavolo abbastanza differenti, approcci diversi, hai la possibilità di studiare piano piano quello che più di tutti può corrispondere anche alla tua personalità, al tuo carattere, a un ventaglio di giocatori, avendone visti tanti, ognuno con le proprie caratteristica sia tecnica che umana. Poter fare un percorso di questo tipo secondo me è fondamentale perché ti da questo bagaglio. Il che non vuol dire essere in grado di affrontare qualsiasi tipo di evento che ti possa capitare, anno dopo anno, stagione dopo stagione, ma ti da senza dubbio la capacità di poter capire e sentire quale può essere il modo di operare più adatto, non tanto relativamente ai gruppi, ma al tuo carattere e di conseguenza aiutarti a creare la tua credibilità. Io la penso in questo modo, cioè ognuno di noi è una persona e quella persona alla fine nel bene e nel male viene sempre fuori quando alleni. La cosa importante è essere congruenti, cioè avere uno stile, porsi nei confronti dei giocatori in maniera credibile a quello che è la propria personalità. Anche da giocatore, questa è un’esperienza che mi sono portato fuori dal campo; penso sia abbastanza facile per i giocatori individuare in un allenatore quella che è l’incongruenza tra il proprio stile e la propria persona. Credo che poter essere congruenti in questo senso sia molto più apprezzato e apprezzabile.

In questo poi c’è l’evoluzione che avviene anno dopo anno: la persona cresce e matura e di pari passo lo fa lo stile che dai in quello che fai.

È una grande verità il fatto che lo stile e l’approccio che noi allenatori dobbiamo avere disponibile per poterci interfacciare con personalità differenti deve essere un ventaglio di opzioni, che non siano una sola. Ma io con un determinato giocatore posso avere un determinato modo di pormi ma tutto dev’essere sempre molto congruente a quella che poi è alla fine la mia personalità. È inutile che io faccia il sergente di ferro se poi quello non appartiene al mio modo di essere, perché non riesco a mantenerlo. È uno stile che funziona con determinati gruppi e in determinate situazioni: devi essere molto duro, molto intransigente, quello che poteva essere uno stile un po’ retrò ma che adesso diversi allenatori hanno, però se non è congruente con quello che è la mia personalità, non funziona e non funziona neanche con gruppi con qui quello stile funzionerebbe.

Un po’ di durezza ci deve essere, anche se magari non appartiene più di tanto alla mia di personalità.. più che durezza io la definisco chiarezza, è importante ci sia sempre. Se una cosa l’abbiamo definita, è definita e in quanto tale, se è stata condivisa, è inaccettabile che non possa essere così. Poi il modo di interagire in una situazione dove non è stata rispettata, fa parte della relazione con il giocatore che dev’essere congruente con la personalità dell’allenatore secondo me.

Io la definisco chiarezza, coerenza e probabilmente la definisco così perché nel mio modo di essere c’è questo lato un po’ più morbido. Per me è importante la relazione con i giocatori, che per stabilire una relazione con loro si possa creare qualcosa di molto importante, alcune volte ti si può ritorcere contro. Penso che però questo venga riconosciuto dai giocatori, che il mio modo di essere sia congruo con quello che è il mio modo di relazionarmi in campo, nel relazionarmi con loro.

Quale aspetto ti piace di più di questo lavoro?

Dal punto di vista pratico, a me piace molto studiare la pallavolo, studiarne i modelli, adattare anno dopo anno quello che sono le mie idee. Se io vado a vedere le presentazioni dei corsi che facevo 6/7 anni fa e poi vado a vedere quelle che ho fatto quest’anno, cambia. Anche la caratteristica di poter mettere sempre un punto interrogativo su quello che sono le proprie idee: ok partiamo e facciamo così, ma avere anche la disponibilità e la freschezza mentale di essere pronti al cambiamento. Il cambiamento deve essere orientato e basato su qualcosa, e lo studio della pallavolo secondo me è il primo fondamento sul quale basare il cambiamento. Io cambio la mia idea non così a caso, ma la cambio perché alcuni dati, alcuni studi che faccio mi dimostrano che qualcosa è cambiato; o che qualche approccio può essere fatto in maniera differente, più funzionale a quello che è la pallavolo degli ultimi due anni per esempio.

Per me forse questa è la cosa più bella in assoluto, unita al vedere queste idee che si realizzano in campo. Quando tu queste idee le condividi con il gruppo, con i giocatori e vedi che funzionano, quella è la più grande soddisfazione. Quando vedi un giocatore che si gira e ti dice: “Oh, sai che questa cosa qui che stiamo provando funziona”, quella è tanta roba perché ti fa crede in quello che fai, ti fa spendere le estati non al mare ma davanti al computer, ti fa spendere le notti dei giorni liberi a vedere quello che si può migliorare. Quello è un feedback che dà grande energia.

Agosto e settembre per eccellenza solo i mesi dedicati alla preparazione fisica e tattica prima dell’inizio della stagione. Come si organizza questo tipo di lavoro e come viene programmato?

A questa domanda posso risponderti come ho risposto nell’ultimo periodo a chi mi ha chiesto di programmazione.

Credo che il periodo preparatorio sia l’unico realmente organizzabile e preparabile come ti insegnano all’università. Cioè quindi il macrociclo, il mesociclo, il microciclo, questa settimana si fa questo, e ovviamente sono stato smentito quest’anno da poi quello che mi è capitato qui a Cisterna. Ma, resto dell’idea che sia l’unico vero periodo organizzabile da preparazione, perché è l’unico periodo dove non sei soggetto a quello che è la dipendenza dai risultati, che, diciamocelo chiaro, comandano tutto il resto del periodo agonistico.

Vinci, puoi programmare in un certo modo. Perdi, devi per forza di cose riprogrammare determinate cose. In tutti gli sport fondamentalmente agonistici, dove c’è una forte dipendenza dai risultati, si fai la programmazione ma è soggetta a continui e infiniti adattamenti, cambi di calendario, coppe; ma non solo tue perché una squadra con la quale giochi che cambia calendario perché va avanti o perché viene eliminata in una competizione fa spostare anche le tue partite. In quel caso la programmazione diventa settimanale o bisettimanale.

Invece, per quello che riguarda il periodo preparatorio, lì si lavora sulle 8/9 settimane, a me piace lavorare cominciando la preparazione un po’ prima rispetto ad alcuni colleghi, perché nelle squadre che ho allenato fino ad adesso c’erano tanti giocatori fermi da tanto tempo. Per non ammazzarli di lavoro subito e quindi creare poi delle problematiche sul medio e lungo periodo dal punto di vista fisico, preferisco allungare un po’ la preparazione in modo da poter partire con lavori sulla sabbia o comunque un po’ meno traumatici e portarli piano piano ad una condizione accettabile che li possa far reggere al lavoro sulla superficie un po’ più dura che è quella della palestra.

Le prime 6/7 settimane sono sicuramente con una priorità fisica e tecnico-tattica, quindi più un discorso di organizzazione di gioco, sia di fase break che di side out; le ultime 2/3 settimane sono invece quelle che di norma dedico ad aumentare un po’ il ritmo della squadra, con una principale ambivalenza data a quella che è la parte del gioco più importante che è la fase side out, dove il ritmo è un po’ più alto e si cerca di portare un po’ la parte pesante della prima fase alla parte brillante, che è quella che poi ti deve lanciare all’inizio del campionato.

Spesso e volentieri in questi mesi vediamo che molte società si ritrovano a cominciare con le rose prive di alcuni giocatori impegnati nelle competizioni internazionali. Come avviene il loro inserimento in squadra?

Per quanto riguarda i nazionali, c’è sempre una primissima valutazione e un contatto costante con i giocatori che sono via per capirne bene lo stato di forma sia fisica che psicologica. All’interno di una preparazione devi essere in grado di inserire un giocatore che magari è importante, perché se è un nazionale probabilmente è anche un titolare; devi avere una connessione con il giocatore, se non esclusivamente con lui magari con lo staff che lo ha gestito fino a quel momento per non trovarti delle sorprese, come è capitato anche a me quest’anno, che ti possono mettere in difficoltà. Se sei fortunato e hai un settore giovanile, riesci a tamponare la mancanza facendo il famoso ritmo di cui ti parlavo prima, magari con giocatori di un po’ più bassa qualità ma comunque con una presenza in campo che non ti obbliga a sovraccaricare altri giocatori. Se non hai la fortuna di avere il settore giovanile o di avere un giocatore che magari in quel periodo del campionato o della preparazione non ha ancora trovato una squadra e quindi è venuto ad allenarsi con te, sei sotto organico e quindi fai fatica e non ti prepari in maniera adeguata all’inizio del campionato.

È importante quindi il contatto con i giocatori, avere feedback da loro su come stanno, tenendo conto che poi questi molto spesso arrivano non solo fisicamente, ma psicologicamente svuotati dal finire di un grande evento. Ad esempio finito l’Europeo ti arriva il giocatore con un down psicofisico normale dato dal fatto che si è preparato tutta l’estate per un determinato evento e arriva con quell’evento finito, come se arrivasse dopo i playoff. Anche il valutare di dargli un po’ di riposo, di portarlo dentro, se ne hai la possibilità, con la dovuta gradualità, è importante e proficuo anche per il medio e lungo periodo perché il rischio è quello di andare incontro ad infortuni. È un momento molto delicato: ci sono giocatori che sono un po’ più abituati a fare questo switch on-off, quindi sono on nella competizione, si metto off per qualche giorno e poi si accendono immediatamente quando vanno nel club. Altri un pochettino meno.

Questo è un discorso di valutazione, conoscenza del giocatore, contatto che hai mantenuto con il giocatore; sono tutte cose che vanno valutate, tenendo conto che poi il giocatore come ti arriva, ti arriva, e lì non hai potuto mettere parola su quello che c’era prima, e puoi semplicemente gestire la situazione che ti trovi di fronte. Se il giocatore ha delle problematiche, vanno rispettate e vanno gestite organizzandoti anche affinché questo non incida sul periodo preparatorio della squadra intera. Il bene principale resta comunque poi sempre la squadra.

Come si prepara un allenatore ad affrontare una stagione così competitiva come quella del campionato italiano?

Che il campionato italiano sia se non il, uno dei migliori al mondo, è fuor di dubbio sia per livello, che per presenza di giocatori, per organizzazione societaria, per modelli tecnico tattici, è sicuramente uno dei top al mondo.

L’esperienza all’estero mi ha insegnato che la pallavolo di alto livello non è solo in Italia ma anche all’Estero, e non solo in Polonia e in Russia, ma anche in Turchia e ci sono squadre di alto livello un po’ dappertutto tanto che le Nazionali che competono a livello internazionale sono sempre di più.

L’allenatore deve riposarsi durante il periodo estivo tanto quanto il giocatore, perché dal punto di vista sia fisico che mentale è uno stress tosto quello di affrontare un campionato italiano. Trovarsi a gestire una squadra di persone fatta non solo da giocatori ma anche da uno staff, è un mestiere che assomiglia molto a quello del manager. Quindi la giusta quantità di riposo secondo me ci dev’essere ed è una cosa molto importante, anche nel corso della stagione, come lo è per i giocatori. È una cosa che va valutata molto bene, e te lo dico per esperienza personale perché mi è successo di sottovalutarla. In aggiunta a questo, in base alla propria fortuna o sfortuna di avere un periodo di stacco, dal momento che magari ci sono tanti allenatori che fanno anche la nazionale d’estate, lo studio. Entrambi sono fondamentali per potersi approcciare ad una nuova stagione pronti per poter competere.

Quali squadre secondo te sono le favorite per lo scudetto e come credi sarà l’approccio della tua Top Volley Cisterna?

Penso che il focus debba per forza, visto anche la storia degli ultimi decenni, cadere sulle quattro grandi sorelle che secondo me si giocheranno dal primo all’ultimo punto la leadership della regular season e le semifinali e le finali dei playoff. Credo che Trento, Modena, Civitanova e Perugia siano quelle meglio attrezzate per poter competere per lo scudetto.

Dirti chi di queste quattro vincerà lo scudetto, secondo me è molto difficile: non ce n’è una che spicca sulle altre; mi piace molto Modena, si è rinforzata molto Perugia, Civitanova ha il punto interrogativo del rientro di Zaytsev, Trento è secondo me sulla carta quella di queste quattro che parte con qualcosina in meno, ma ha la carica e la freschezza di un allenatore capace e di un gruppo nuovo di italiani che ha fatto benissimo all’Europeo. Io vedo veramente un 25% a testa di probabilità perché hanno anche caratteristiche differenti nella costruzione della squadra, nella tipologia di gruppo e poi la dinamica dei playoff è troppo lontana da oggi. Alla fine arrivare primo, arrivare secondo, terzo, se sei nei playoff puoi sfondare e puoi vincere come è successo abbastanza spesso. Chiaro che tra quelle quattro lì cade lo scudetto ecco.

Piacenza secondo me è un’ottima squadra, che farà molto bene, come Monza e Milano. Sono tutte gran belle squadre però difficile che sfondino e vadano a competere per lo scudetto.

Ci possono essere delle sorprese..

L’anno scorso c’è stata Monza che è entrata in semifinale, con una Modena però non attrezzata per fare altrettanto secondo me, quindi quest’anno la musica cambia. È vero che forse Trento sembra che abbia qualcosina in meno rispetto all’anno scorso, però alla fine è sempre l’alchimia di squadra che fa la differenza. Trento ha sicuramente giocatori di qualità ce li ha, perché è vero che ha perso Giannelli ma ha preso Sbertoli che è il secondo miglior palleggiatore italiano, quindi di alto livello.

Per quanto riguarda noi, faccio fatica a sbilanciarmi perché voglio vedere questa squadra alla prova di appuntamenti più provanti rispetto a quelli che abbiamo avuto fin’ora. La squadra sicuramente è stata costruita con giocatori che avessero ognuno una sfida da affrontare e vincere. Sembra un po’ strano da dire ma nella costruzione della squadra abbiamo pensato anche a questo: nel rinnovamento quasi totale della rosa, abbiamo pensato a giocatori che giungessero verso Latina con una sfida da vincere, ognuno con la sua e tutti insieme con una di squadra, quella di migliorare senza dubbio gli ultimi campionati che ha fatto Cisterna. A me piace poco porre gli obiettivi perché bisogna sempre poi mettersi alla prova con il campo, con la squadra, con il campionato, conoscersi, vedere. Secondo me sulla carta abbiamo buone possibilità, ma la carta non gioca, non scende in campo. Quello che scende in campo è la squadra fatta di singoli che però devono stare bene insieme in campo, e quello spesso è il segreto di quelle sorprese di cui parlavamo prima, di quelle squadra che fanno meglio di quello che la carta gli avrebbe portati a fare. Lì c’è il segreto di un nostro possibile campionato di alto livello.

Fabio Soli Latina