Dal trapianto al ritorno sotto rete: la storia di Loris Puleo
«Sono stato un calciatore fino a 19 anni. A 16, in parallelo, giocavo anche a pallavolo nelle giovanili. La malattia si è fatta avanti quando avevo 20 anni, all’ultimo anno di liceo. Ho dovuto abbandonare tutto».
Inizia così il racconto di Loris Puleo, il pallavolista trentino che quest’estate, con la rappresentativa italiana, ha vinto gli European Transplant Games di Oxford. E che ieri è stato premiato al Galà dello Sport di Trento, insieme ad altri trentini medagliati, tra cui il campione europeo nel mezzofondo Yemam Crippa.
Un racconto di dolore, di speranza. Ma soprattutto un racconto di sport.
«La malattia è iniziata con frequenti mal di testa, che si ostinavano a non passare nemmeno con l’Aspirina. Per un po’ non ci ho dato peso. Ero un ragazzone veramente atletico e in forma: alto un metro e 86, pesavo 85 chili; una statua insomma. Poi però la loro frequenza mi ha fatto preoccupare, così sono andato dal dottore. Mi ha comunicato che i miei valori pressori fossero sballati, che avrei dovuto fare altri esami. Da lì è emerso che la funzionalità dei miei reni era quella di un ottantenne».
«La prima reazione è chiedersi come sia possibile. Chiedersi perché proprio a te. Nemmeno sapevo a cosa servissero i reni fino a quel giorno, fino ai miei 20 anni. Lì è arrivato il primo ricovero; poi tutta una serie di esami dai nomi impronunciabili. “Ma che diavolo è una Glomerulonefirte?” Per la prima volta ho sentito parlare di “dialisi” e di “trapianto”. Le dialisi sono di due tipi: l’emodialisi è extracorporea (il sangue viene estratto e “ripulito”), mentre la dialisi peritoneale è intracorporea. La seconda è più comoda, in un certo senso. La potevo fare a casa tutte le notti; in questo modo ero per lo meno libero per lo studio e il lavoro. In verità la malattia aveva già preso in mano la mia vita, sconvolgendo la quotidianità. Prima ero 80, poi 77, 75 chili. Sono arrivato fino a 62: in pratica la radiografia della persona che ero pochi mesi prima».
«Sono iniziate le difficoltà a livello psicologico: ho perso tutte le certezze, continuando a chiedermi il perché. In seguito, a causa di un’infezione, non è nemmeno stato più possibile fare le dialisi a casa. Sono dovuto andare tre volte a settimana in ospedale, con sedute di quattro ore. Dopo ognuna ci si sente come dopo aver lavorato per dieci ore di fila. È durissima. E, soprattutto, lì ci si rende davvero conto di essere una persona malata. Un concetto semplice, ma che fino a quel momento si tende a minimizzare».
«Si comincia quindi a guardare al trapianto come l’unica possibilità per staccarsi dall’obbligo di dialisi. Si passa la vita in attesa che arrivi quella telefonata. Per sette anni ho fatto dialisi, senza nessun tipo di attività fisica, nonostante prima fossi ipersportivo. Infine, il 5 dicembre del 2007, da Innsbruck è arrivata la telefonata che aspettavo: un rene da un donatore. Non è semplice riuscire a descrivere cosa ho provato durante quella telefonata. Per farla breve, grazie a quel dono si può iniziare a riprogettare la propria vita, ripensando al domani. E anche tornare ad approciarsi allo sport».
«Ricordo che nell’ambulatorio dei trapianti c’era appesa sul muro una foto di Erminio Rigos, un atleta ai Mondiali di sci per trapiantati. Guardandola ho pensato: “Se c’è riuscito lui, forse posso farlo anche io”. Sono tornato in palestra, ma è stato difficile ritrovate il tono muscolare. Dovevo andare il doppio anche solo per potermi avvicinare a ciò che riusciva agli altri. In particolare per chi, come me, è stato trapiantato al rene o al fegato. Senza contare i molti risvolti negativi nella mia terapia immunodepressiva».
«In ogni caso ho ripreso attività e, nel 2010, ho affrontato un campionato amatoriale CSI. Nel 2013 ho avuto l’occasione di partecipare al Mondiale con la Nazionale trapiantati in Sud Africa. Sono andato senza alcuna ambizione sportiva, ma è stata un’esperienza incredibile; anche solo poter incontrare 4 mila atleti trapiantati da ogni angolo del pianeta. Lì ho capito che avrei voluto lottare per poter far compiere questa esperienza ad altri».
«Nel 2014-2015 purtroppo i reni hanno iniziato nuovamente a perdere colpi. Nel 2018 sono infine tornato in dialisi, per poi affrontare un secondo trapianto il 5 giugno 2020. A 42 anni ne avevo alle spalle 10 di dialisi e due trapianti. Eppure è incredibile come il trapianto sia in grado di darti una spinta. È come togliersi uno zaino di 20 chili dalle spalle».
«Sono tornato in campo a ottobre dell’anno scorso, il 2021, ad un evento a Novi Ligure col Club Volley Trapiantati e Dializzati Italia. Quando ho fatto il passo oltre la linea laterale per entrare, al momento del cambio, l’emozione è stata incredibile. Le gambe mi tremavano. Ricordo di aver attaccato un pallone da posto 2: è come se il mio donatore mi avesse dato la forza di buttare la palla di là dalla rete. L’energia che ci lega la possiamo capire solo noi».
«Da lì in avanti ho macinato sempre più partite, fino ad arrivare ai campionati Europei per trapiantati ad Oxford. Ripeto: sono esperienze che qualunque trapiantato dovrebbe fare. Ognuno è lì con la propria storia personale, eppure tutti condividono un percorso simile: eravamo lì grazie alla nostra forza, ma anche grazie a qualcun altro che aveva detto SI alla donazione. E poi, quando l’arbitro fischia, c’è solo lo sport. Solo la voglia di schiacciare e fare il buco per terra».
«Pur essendo in sei giocatori contati, abbiamo giocato e superato Ungheria, Gran Bretagna, Kazakistan e una rappresentativa europea. Quando è arrivato il momento di siglare l’ultimo punto ricordo di aver guardato Michele, il mio alzatore, e di avergli chiesto il pallone: “La voglio metter giù io”. Lui già lo sapeva».
«Al punto della vittoria è arrivato un misto di gioia e incredulità. Per noi, per gli anni di sacrifici che abbiamo dovuto affrontare. Ma anche e soprattutto per il valore di quella medaglia: magari qualcuno potrà guardare me e i miei compagni, trovare l’ispirazione per tornare allo sport dopo la malattia. Uscire dalla campana di vetro sotto la quale si tende a volersi muovere. Esattamente come per me è stato con Erminio Rigos, lo sciatore».
«E poi, magari, questa storia potrà convincere qualcuno, nel momento del rinnovo della carta d’identità, a dire di sì alla fatidica domanda: “Vuoi dare l’assenso per il trapianto?”. Senza quelle risposte positive, nessuno della nostra squadra avrebbe potuto vivere queste esperienze».