Dalle lacrime di Pechino alla gloria di Rio: la consacrazione di Bruninho
Compie 35 anni uno dei più grandi palleggiatori degli anni 2000, un figlio d’arte che ha dovuto superare critiche e momenti difficili.
21 agosto 2016. Finale maschile dell’Olimpiade in terra carioca. Italia e Brasile sono arrivate con pieno merito a quell’appuntamento. Dopo 1 ora e mezza, Juantorena riceva il servizio brasiliano, con un certo affanno. Giannelli si affida a Ivan Zaytsev, fino a quel momento impeccabile. Ma il lungolinea dello Zar si schianta sulla mani a muro di Lipe. Il Maracanazinho erutta.
Il punto è quello del 26 a 24 nel terzo set: vale l’oro per la Nazionale che più di tutte è il nostro spauracchio da almeno una ventina d’anni. Niente da fare per i ragazzi di Blengini; invece per quelli di Bernardinho la festa è appena cominciata, ed è forse la medaglia più prestigiosa di quell’Olimpiade per il loro paese.
Tra tutti, un ragazzo in particolare è più felice degli altri. Tanto da sciogliersi in lacrime mentre, sul gradino più alto del podio, risuona l’inno; è il figlio dell’allenatore che ha cambiato la pallavolo moderna, Bernardo Rezende, ed a lungo ha dovuto combattere non solo contro gli avversari, ma contro ombre, sospetti, pressioni e sconfitte.
Bruno de Rezende, per tutti Bruninho, è oggi riconosciuto come uno dei palleggiatori più iconici del XXI secolo. Ma ha dovuto sudare per guadagnarselo, ha dovuto fare i conti con quel cognome ingombrante, con quella parentela che già ad altri sportivi, altri “figli d’arte” era pesata eccome.
Ancora oggi, Sandro Mazzola ricorda che non fu facile per lui scendere in campo. Era il figlio del grande Valentino. “Il padre è stato bravo…lui chissà” gli disse senza pietà il grande Herrera quando lo vide. Non fu differente per Paolo Maldini ai primi tempi, ma superò la prova alla grande, al contrario per esempio di Julio Cesar Chavez Jr., il figlio della leggenda messicana della boxe, ad oggi una sorta di vip che prende sganassoni da chiunque sul ring.
Bruninho, con quell’oro di Rio, con il premio di miglior palleggiatore che seguì, mise la parola fine in modo definitivo a critiche, illazioni, sospetti e un’antipatia che era partita da quanti pensavano che senza quel cognome, a guidare il Brasile ci sarebbe stato qualcun altro.
La storia del palleggio è piena di esclusioni eccellenti operate da chi sta in panchina. Noi ne sappiamo qualcosa, i casi di Vullo e Cacciatori sono lì a ricordarcelo. Ai verdeoro non andò diversamente. Ricardinho era il quid in più che permise ai brasiliani di giocare forse anche sopra ciò che in teoria avrebbero potuto fare normalmente. Un caso che al di fuori della Nazionale, sovente, abbiano deluso i protagonisti di quel ciclo incredibile? Non c’era e non c’è più stato un palleggiatore come Ricardinho. La sua esclusione definitiva dalla Nazionale, causa il legame incenerito con Bernardinho, aprì le porte a una serie di interpreti molto diversi tra di loro.
Marlon, William, Marcelo… e Bruno, Il figlio del coach, che era cresciuto a pane e pallavolo. Che già nel 2011 era finito in quella Modena, che per lui è oggi una seconda casa. Cimed, RJ, Sesi e Lube sono state importanti ma non come sentirlo invocare dalla torcida gialloblù, dove con N’Gapeth, ha sostanzialmente cambiato il concetto di diagonale su un campo di pallavolo, regalato spettacolo e carisma, fantasia e ritmo.
Eppure, non sempre in Nazionale convinceva, dicevano in molti, che invocavano quel Raphael de Oliveira, che conquistava il mondo con biancorossi di Trento, che sembrava poter garantire maggior regolarità, esperienza e freddezza.
Pechino 2008: la delusione contro gli USA
Nella finale di Pechino, contro gli USA, il Brasile stecca: non si riesce a confermare campione olimpico. A palleggiare è Marcelinho; il giovane e sbarbato Bruno entra al servizio, sempre sul pezzo, sempre aggressivo. Durante i time out carica i compagni battendo loro il cinque. Gli viene perfino affidata la battuta sul primo match point avversario: non la sbaglia.
Gli statunitensi però, orchestrati da un espertissimo Lloy Ball, vincono l’oro. Bruno viene ripreso dalle telecamere in lacrime, nonostante l’esito di quel match non fosse passato dalle sue mani.
Nel 2010, a dispetto dell’oro mondiale vinto dai brasiliani in Italia, proprio nella finale contro Cuba il giovane Bruno fu messo in panchina per Marlon. Anche lì, pur nel momento dorato, in molti dissero che forse era lui l’unico vero punto debole di quella squadra. Gli veniva rinfacciata la scarsa continuità, l’eccesso di egocentrismo, un talento chiaro ma non sorretto dalla stabilità emotiva. Qualcuno disse che tecnicamente in posto 4, al centro e con la pipe non vi erano problemi. Ma dietro, non sempre era preciso, era puntuale, non si dimostrò secondo molti capace di dare al Brasile ciò che serviva, rendendo il gioco prevedibile.
Londra 2012: la drammatica rimonta della Russia
Da quel 2010 al 2014, i brasiliani sono sempre tra i primi, ma non vincono più come prima. Serve un capro espiatorio, serve cercare qualche colpevole. Nessuno accetta che Giba, Dante e Murilo siano logori o invecchiati, che gli avversari siano cresciuti, che ci sia un cambio generazionale. No. La colpa è che della squadra che non gira; di Wallace, Evandro, Vissotto che non hanno i palloni giusti.
La “conferma” di queste voci arriva in una nuova finale olimpica, questa volta contro la Russia, a Londra 2012. Il Brasile diretto da Bruno vola avanti per 2 set a 0. A quel punto coach Alekno, disperato, gira in posto 2 (nel ruolo di opposto) il centrale Muserskiy per cercare di ribaltare una partita ormai segnata. Incredibilmente, lo stratagemma funziona. Il gigante da 2 metri e 20 sfodera la prestazione della vita, non viene mai fermato, guida i russi ad un 3 a 2 diventato leggenda.
La delusione verdeoro è pesantissima. “Non è bravo abbastanza. Con Ricardinho avremmo vinto” decreta chi non ha mai visto bene quel ragazzo dai ricci biondi come titolare in campo e che scoppia in lacrime, come 4 anni prima.
Davvero è colpa sua? No. La realtà è che ciò che era rivoluzionario ieri poi diventa scolastico, che pure per i brasiliani, fucina di talenti, vincere sempre non è facile come non lo era per i Fenomeni di Velasco. Gli “altri” si organizzano, studiano.
Lo fanno i polacchi nel 2014, due anni dopo la delusione di Londra. Bruninho parte in affanno, poi però i brasiliani reagiscono, si portano sul 21 a 16. Nei primi due set il ragazzo è contratto, poi però si scioglie, prende in mano la squadra, alza molto bene. Ma non basta, i polacchi sono un attimo più veloci, più ficcanti al servizio, più bravi in attacco. Altro argento che sa di piombo. Ma è in quel match che Bruninho dimostra pur nella sconfitta, di essere leader, un trascinatore, di sapersi rialzare e giocare a dispetto di tutto, di essere maturato. Sarà grazie a quel carattere e perfezionismo che Modena centrerà infine nel 2016 lo storico Triplete. Nella città di Caterina Caselli, è stato amore a prima vista, gli piace la visceralità della città dove la pallavolo è religione. Con Lorenzetti migliora tantissimo, cosa che poi per sua stessa ammissione lo aiuterà (ahinoi) alle Olimpiadi di casa.
La finale di Rio al Maracanazinho, davanti al pubblico di casa, si conclude con un 3 a 0 secco. Le lacrime, questa volta, sono di gioia. Bruninho e i suoi compagni sanno di essere davvero entrati nella storia, per sempre.
La consacrazione di Bruninho in Italia
Sostanzialmente un idolo per tantissimi in tutto il mondo, quasi un figlio adottivo per Catia Pedrini, presidente di Modena; pur passando da momenti controversi come l’ammutinamento contro Rado Stoytchev in diretta televisiva a Barba e Capelli.
Piomba a reclutarlo la Lube Civitanova, lo porta nell’anno dei mondiali in una corazzata pazzesca dove vincerà in due anni la sua prima e unica Champions, più il mondiale per club, la Coppa Italia e il suo secondo scudetto. Sono di consolazione ad un’altra finale storta, ancora contro i polacchi. Stavolta non c’è proprio nulla da fare e come fa sempre, il padre le prova tutte, prova anche William al suo posto. Non una grande performance per lui, ma vale per tutti quella sera, schiacciati da Kurek e soci, semplicemente da una squadra più forte e più determinata.
Dopo un anno al Funvic, eccolo quest’ aprile annunciare che torna ancora in quella città dove ha fatto vedere la sua miglior pallavolo, dove ritroverà N’Gapeth e il fuoriclasse cubano Leal. I presupposti per fare bene ci sono, in attesa di vederlo a Tokyo, forse per l’ultima volta mentre insegue il secondo oro olimpico, che lo porterebbe definitivamente tra gli immortali di questo ruolo.
Bruninho oggi compie 35 anni. Il suo unico, vero, giovanile difetto è stato quello molto comune di non sapersi adattare ai compagni, di dover sempre spingere, accelerare, di non saper far altro che la sua pallavolo. Ma vi ha posto rimedio negli anni della maturità, mentre raccoglieva il testimone di Mauricio e Ricardinho, guidando i suoi compagni ovunque a vincere o, se sconfitti, a rialzarsi.
Forse, anche i più critici o quei pochi rimasti che non lo amano, capiranno quanto è stato speciale questo ragazzo solo quando non sarà più in campo. Il che lo rende, assieme al suo essere modenese d’adozione, ancora più italiano ai nostri occhi.