Febbraio 8, 2021

Da geometra a vice campione olimpico: la storia di capitan Birarelli

Giulio Zoppello

La mia vita l’avevo sempre immaginata come giocatore di pallavolo

EMANUELE BIRARELLI

Pochi mesi fa ha detto basta, ha appeso le ginocchiere. Onestamente non è più la stessa cosa seguire la Superlega e soprattutto la Nazionale senza di lui: senza Emanuele Birarelli, senza la presenza più costante al centro in azzurro dell’ultimo decennio.

E dire che, per molto tempo, molti hanno trovato in Birarelli un oggetto misterioso; si potrebbe dire che in effetti è stato un centrale parecchio diverso da tutti gli altri che hanno fatto la storia di questo ruolo in Italia. A voler trovare paragoni, l’unico che può venire in mente è forse Claudio Galli.

Ma la realtà è che il Bira è stato chiamato a confrontarsi con una pallavolo che, nel giro di pochi anni, è cambiata in modo assolutamente radicale, soprattutto nel suo ruolo. Lui al top è arrivato relativamente tardi rispetto ad altri, e lì in mezzo in pochissimo tempo ha avuto a che fare con giganti oltre i 2 metri e 7. Lui ha saputo sopperire a tale svantaggio con altre qualità, che lo hanno reso un punto di riferimento assolutamente irrinunciabile sia per la Nazionale (che in quel ruolo negli ultimi anni ha spesso avuto grossi problemi di organico) sia in quella Trento dove fu parte di una compagine diventata leggenda.



La storia del Bira però, è anche e soprattutto una storia di sacrificio; è la storia di una seconda occasione anche. Gli inizi a Falconara sono a dir poco promettenti per Emanuele, che nel 2002 passa alla Dorica Anconca; tutto attorno a lui parla di un futuro di valore nella Serie A maschile.

Invece nel 2003 tutto passa in secondo piano, quando gli viene diagnosticata un’ischemia che potrebbe comprometterne la carriera in modo definitivo. A furia di colpi d’attacco e braccia alzate a muro, il sangue non circola più come dovrebbe nell’avambraccio destro. Gli consigliano: «Smetti». Emanuele non si scoraggia, comincia le terapie, ma in testa già affronta la concreta possibilità di non poter più essere un pallavolista professionista.

Si mette a fare il geometra in uno studio della sua città, con la stessa dedizione e lo stesso scrupoloso impegno che aveva in palestra: senza lamentarsi, senza fare un fiato. E si che ne avrebbe ben donde.

Due anni e mezzo di limbo. Poi, nel 2005, può ritornare a giocare: lo fa a Pineto. Conquista presto il posto da titolare, riesce a mettersi in mostra. L’anno dopo è sempre gialloblu ma in un’altra città: Verona. Ed è a Verona che Trento lo va a prendere, decide di puntare su di lui, sulle sue qualità tecniche e tattiche. La squadra è una corazzata assurda, servono giocatori di equilibrio e che siano leader silenziosi, che diano continuità e sappiano essere in campo un punto di riferimento al di là del ruolo. Birarelli è l’uomo giusto, lo sarà per otto anni; tanti fuoriclasse verranno e passeranno, ma lui rimarrà lì, fisso in posto tre, a fermare tutto quello che passa. E non solo.


Pochissimi centrali hanno avuto una battuta salto-flot paragonabile a quella del Bira. Si può anche dire che sostanzialmente l’approccio tattico e tecnico a questo tipo di servizio lui lo abbia cambiato in modo profondo, ne abbia dimostrato la pericolosità e l’incisività che possono fare la differenza in un match. Sovente possono riaprirlo. Come lo fa lui nel 2008, quando già è una presenza fissa tra gli azzurri. Nel preolimpico la Nazionale di Anastasi soffre enormemente contro il Giappone di Koshikawa; con la loro velocità, dinamismo, difesa e ardimento i nipponici mettono in grossissima difficoltà gli azzurri.

Siamo sotto per 24 a 17 nel quarto set, in svantaggio per 2 a 1. Una partita chiusa, finita, in ghiaccio. Riusciamo a prendere il servizio, si va sul 18. In battuta ci va il Bira; e il Bira massacra la ricezione nipponica fino a quel momento quasi intoccabile: due mezzi ace, un ace, distrugge il ritmo ai nipponici, i suoi compagni fanno il resto. Sbaglia sul 24 pari, ma sarà un errore indolore. Poi continuerà fino alla fine a metter giù muri e primi tempi, sarà il trascinatore assieme a Zlatanov di una squadra che si impone infine per 35 a 33. E poi va a vincere il tie-break.


Già, l’attacco. Emanuele ha dato un nuovo senso al concetto di primo tempo. Con tanti giganti che potevano contare su altezze siderali e centimetri ma chiaramente più lenti, Birarelli ha sempre dimostrato oltre che versatilità, anche la capacità di riappropriarsi del concetto di anticipo. Non molto a suo agio con il doppio gancio o la sette, è stato invece molto più presente la veloce pura. Una veloce che lui eseguiva in modo mirabile, sia davanti che dietro e che apriva spazi non da nulla per gli altri compagni. Ma il muro, quel muro rimane ancora oggi il suo marchio di fabbrica. Compostezza, capacità di creare un piano di invadenza perfetto, scelta di tempo e una capacità di leggere il palleggiatore avversario uniche nel suo genere. Birarelli a muro è stato uno dei centrali più forti della sua generazione, fatto ancora più impressionante se pensiamo che ha tenuto tale caratteristica anche quando in quel ruolo ha cominciato ad avere contro schiacciatori e omologhi che andavano molto più alti di lui.

Il suo palmares parla chiaro: 4 campionati, 3 Coppe Italia, per ben 4 volte Campione del Mondo con il Club, 3 volte sul tetto d’Europa, 2 SuperCoppe italiane, più una sfilza di premi come Miglior Centrale che finisce domani, alla faccia di una concorrenza sempre più agguerrita. Lui, con quella faccia da bravo ragazzo, l’antidivo per eccellenza, con quell’aria da studente che prende sempre 30 è stato però anche capace di migliorarsi affrontando paure e fantasmi.

In Nazionale era stato talvolta criticato per un apporto non all’altezza di ciò che mostrava con il club bianco-rosso. Vi erano in effetti momenti in cui il Bira non rendeva come al solito. A nessuno naturalmente veniva in mente che forse cambiassero compagni, avversari, riferimenti, modo di giocare, così come il fatto che a Trento fosse parte di una macchina perfetta, della squadra più forte del mondo per distacco, ma in fondo fosse anche a casa sua. Lui stesso lo ammetterà più volte, come ammetterà di aver rotto quell’incantesimo finalmente nel 2012 a Londra.

Olimpiadi amare per l’Italia. Si gioca sempre così così, non si riesce a fare il salto di qualità; quando arriva il match per fare la storia, la squadra crolla in semifinale contro il Brasile, la nostra bestia nera. Per il bronzo ce la vediamo con una Bulgaria ampiamente rimaneggiata, ma che ci mette in grande difficoltà. Lui gioca un grande match, poi gli arriva il pallone per chiudere. A lui, un centrale: roba da Lucchetta a Maracanaizinho e Brasil 1990. Lo mette giù. Si toglie un bel macigno e da quel momento diventa ancora più leader anche in azzurro.


Arriveranno argenti e bronzi europei, in World League, ma anche un periodo difficile per tutta la nazionale nel 2014 e 2015: la delusione ai mondiali, l’era Berruto che volge al termine in modo burrascoso, lo spogliatoio che esplode. Gli tolgono la fascia di Capitano, quella fascia che si è guadagnato con sacrifici e con l’esperienza. Ma la riprende giusto in tempo per i Giochi di Rio. In quell’Olimpiade lui sta in campo a dispetto di un infortunio, ha una caviglia destra grossa come un melone.

Piano però è malconcio, pure Buti non sta da Dio; arriviamo a dover schierare al centro la banda Oleg Antonov. Eppure il gruppo, anche con il suo esempio, va avanti come un treno, cede solo in finale contro il Brasile padrone di casa.

«Il culmine della mia carriera – dirà Lele Birarelli -. È vero, abbiamo perso quella finale, ma in quei 20 giorni avevamo la sensazione di essere invincibili». Su quell’argento si potrà discutere in eterno tra appassionati e tifosi di quanto conti e quanto valga. Ma è un dato di fatto che lui si guadagni il riconoscimento come Miglior Centrale della rassegna.

Dopo Trento, che lascia con uno scudetto vinto a Modena, passa due anni a Perugia, poi tre di nuovo a Verona. Il Campionato che si inceppa per il Covid19, il contratto in scadenza, fanno maturare in questo rocker mancato la decisione di passare ad altro, di affrontare un nuovo capitolo: fare il procuratore.

Di Bira non mi ricordo un gesto fuori luogo, una frase evitabile, un comportamento sbagliato o qualcosa di negativo in campo. Mi ricordo, ci ricordiamo, invece etica del lavoro, disciplina, sacrificio e un sacco di concretezza. Tutte cose che non hanno prezzo e che è sempre più difficile trovare.