Ottobre 17, 2020

Ekatrina Gamova: una vita sopra la rete

Giulio Zoppello

Ha appena compiuto 40 anni Ekaterina Gamova, l’opposta più risolutiva della storia. Una gigantessa (in tutti i sensi) di questo sport.

La riesco a vedere ancora oggi in campo, mi basta chiudere gli occhi.

Lì alta, sottile, pareva quasi disegnata da quanto era irrealmente singolare la sua figura, per quanto era alta in uno sport femminile dove l’altezza è tutto. O quasi.

Quasi perché l’altezza non basta. In quel quasi ci sta ancora oggi tecnica, talento, determinazione, adattabilità, tattica, la capacità di reggere la pressione.

Tutte queste cose, giusto per renderla ancora più terrificante in campo, Ekaterina Gamova le aveva. Da aggiungere ai suoi 202 cm di altezza.

2 metri e 02. Forse anche di più, a seconda delle fonti.

Roba da fole nordiche, di quelle dei tempi antichi, in cui si parlava di ragazze trasformate in alberi, di gigantesse spietate e misteriose, di creature della notte.

Gamova 3

Ekaterína Aleksándrovna Gámova, nata a Chelyabinsk, metropoli russa a metà tra Europa ed Asia, in effetti una creatura di un altro mondo lo è sempre sembrata. E chi ha avuto il privilegio di vederla giocare, può dire di aver visto molto probabilmente la più forte opposta di sempre, nonché una delle 10 giocatrici più forti di ogni tempo.

Sicuramente l’esser stata così alta l’aiutò molto, ma non bisogna dimenticare che quei 206 cm, con una rete a 224, sovente possono significare un’arma a doppio taglio da molti punti di vista. In difesa per lei era problematico essere efficace; a muro doveva stare molto attenta a non regalare troppi centimetri ad avversarie che non chiedevano di meglio per farle mani-out, che è un must della pallavolo di alto livello.

Ma tutto questo scompariva quando Caterina (in fondo il suo nome è questo) era chiamata a fare ciò che sapeva fare meglio: attaccare.
Toccava altezze attorno ai 350 cm da terra, roba da A1 maschile di alto livello; a muro si “limitava” a 330. Già quando era a scuola, da piccola (si fa per dire) gli occhi erano tutti per lei.

Ci volle poco tempo perché fosse notata dal Metar, dai giovanili della squadra della sua città, che la lanciò nella massima serie russa dopo appena due anni. Era il 1996. Caterina Gamova doveva ancora compiere 16 anni, ma non aveva paura di nulla; diventò in breve il fiore all’occhiello di una formazione che anche grazie a lei, vinse due Coppe di Russia.

Fu subito acquistata dalla UralStransbank, poi passò alle “rivali” dell’Uralocka. A queste due squadre si sarebbero succedute poi Dinamo Kalingrad, Dinamo Mosca, Fenerbache, e poi ben sei anni al Dinamo Kazan.

In mezzo, in questi venti anni di carriera, qualcosa come 11 Scudetti nella Santa Madre Russia, 4 Coppe di Russia, 1 Campionato Turco, 1 Coppa Turca, 1 SuperCoppa Turca, 1 CEVChampions e 1 Mondiale per Club.

Se uno ci pensa, si rende conto che in realtà la Gamova ha vinto molto meno a livello internazionale di quanto avrebbe potuto, complice anche l’essere rimasta sempre fuori dalla Serie A, dalla nostra Serie A, che a lungo la corteggiò, la volle, ma lei (come molte altre compatriote) da lì non si voleva (o poteva?) muovere. Misteri del retaggio semi-religioso dello sport russo, in cui andare via dalla patria è ancora oggi visto molto ma molto male. O forse semplicemente stava bene dov’era chissà. Certo poterla ammirare nel nostro campionato, il migliore del mondo, sarebbe stata fantastico.

Ci siamo dovuti “accontentare” di vederla con la maglia della Nazionale. E non era un bel vedere se tifavi per la squadra avversaria; perché Caterina, in 15 anni di carriera dedicata alla nazionale, in 237 presenze, ha letteralmente seminato il panico.

Caterina Gamova passava sopra, semplicemente. Aveva un attacco da seconda linea anche più pauroso di quello dalla prima; forse perché poteva vedere meglio il campo. Di certo per fermare lei bisognava semplicemente augurarsi che sbagliasse o che chiudesse troppo il colpo. Quando era in giornata non ce n’era per nessuno. Il che alla lunga a ben pensarci, diventò anche un problema.

Si perché, nella pallavolo di una volta, avere una cannoniera o un cannoniere (do u remember Ganev?) che attaccava dalla mattina alla sera tutti i palloni era normale; ma in quella moderna era qualcosa che non ci si poteva più permettere di fare. Pena, il diventare prevedibile, il rendere la squadra troppo legata a una singolarità che, se veniva meno, ti lasciava scoperti.

Sovente, poi, la Russia (cantiere sempre aperto) cercò di far coesistere assieme a lei, altre fuoriclasse, abbracciando spesso delle formule tattiche abbastanza sbilanciate o poco flessibili; sempre in nome di una fedeltà assoluta più che all’equilibrio, ad avere bracci armati in giro per il campo.

Lei, dal canto suo, dovette sempre reggere una pressione enorme; sia per l’essere popolarissima in patria, sia per le enormi aspettative da parte di una nazione che sperava soprattutto in lei per tornare a dominare come nei decenni passati. E di certo non rimase delusa.

Guardare il palmares della Gamova in nazionale, fa girare la testa, così come contare i premi individuali che questa schiacciatrice ha raccolto nella sua lunga carriera.

2 Ori e un Bronzo mondiali, 2 Ori e 2 Bronzi europei, una sfraccata di medaglie al World Grand Prix, due argenti alle Olimpiadi.

Già le Olimpiadi. La sua grande delusione, le sue due grandi sconfitte, quando dovette (lei e la sua nazionale) piegarsi allo strapotere caraibico delle fuoriclasse cubane la prima volta e alla forza del collettivo asfissiante che fu la Cina ad Atene.

Anche in quel caso, alla fin fine, lei non bastò. Non basta mai la singola giocatrice. Del resto, la Gamova ha dovuto convivere anche con diversi infortuni; sovente scese in campo non al meglio, ma determinata a dare il suo contributo.

Tra posto 2 e posto 4 (a volte fu schierata da banda non ricevente) è divenuta comunque un simbolo probabilmente irripetibile dell’essere reparto da sola. Come dimostrò nella finale del mondiale del 2010 quando, sostanzialmente distrusse la corazzata brasiliana, con una dimostrazione di forza assoluta: 35 punti, premio di MVP del torneo.

L’ennesimo infortunio nel 2016 le ha fatto appendere le ginocchiere al chiodo, rinunciando alle Olimpiadi di Rio. Oggi è mamma, è una delle migliori ambasciatrici dello sport e del volley russo, ricopre incarichi dirigenziali per la FIVB.

Ma rimane intatto il ricordo di quando questa ragazza altissima, dagli occhi chiari, dal sorriso appena accennato che nascondeva una profonda sensibilità tenuta sovente a freno. Era letteralmente il terrore di ogni difesa, tanto da guadagnarsi un soprannome che sapeva di rassegnazione e timore reverenziale.

Sono 40 anni per Ekaterina “Game Over” Gamova. La gigantessa del volley.

Gamova e Giba