Matt Anderson, il Capitan America dall’animo fragile
Compie 34 anni uno dei migliori schiacciatori del mondo. Un anti-divo che non ha mai nascosto la sua vulnerabilità.
Pare che sia solo questione di ore prima di avere la conferma che Matt Anderson tornerà nella nostra Superlega Credem Banca, per vestire in futuro la maglia della Sir Safety Perugia. Una notizia che, se fosse vera, significherebbe un rinforzo non da nulla per la squadra umbra; nonché ricreare in campo quell’accoppiata che in passato ha reso lo Zenit Kazan uno schiacciasassi a livello mondiale . Wilfredo Leon e Matt erano infatti i due terminali offensivi della corazzata russa, campione d’Europa per quattro anni consecutivi.
A un primo sguardo questo ragazzo parrebbe aver avuto tutto dalla vita: alto, bello, sorridente, forte, elegante, un atleta vincente di fama mondiale. Eppure la realtà, come spesso accade, è più complicata di così; lui stesso non esita a definire complesso il suo percorso.
Matthew John Anderson è nato a Buffalo, nello stato di New York: dopo la Grande Mela, la città più grande da quelle parti. Fin da bambino abbracciò l’amore per la pallavolo; il che già di per sé è una cosa un po’ particolare, visto che Oltreoceano 90 casi su 100 sogni di essere il nuovo Jordan o Tom Brady.
Eppure, fin dagli inizi, questo ragazzo si segnalò come un talento assoluto, soprattutto per ciò che riguardava l’attacco. Già quando era alla West Seneca, guidò i compagni alle finali dello Stato, dove furono battuti dai ben più quotati giocatori dell’Hamburg.
Matt fu accolto alla prestigiosa Penn State University dove, in pochissimo tempo, prese anche un bel po’ di centimetri. Alla Penn, Anderson diventò il punto di riferimento, il bombardiere di una compagine che riuscì a tornare ai vertici del campionato NCAA e a vincerlo nel 2008. Il suo nome è ancora oggi nel roster dei più forti di sempre visti tra i Nittany Lions. Fu inoltre premiato come MVP della stagione, a cui si aggiunsero i riconoscimenti da parte degli altri enti pallavolistici americani. Gli occhi erano ben puntati su di lui, in quell’anno in cui la nazionale maggiore veniva guidata da Clayton Stanley a vincere l’Oro di Pechino 2008. Tutti erano sicuri di aver trovato l’erede del “Punitore” di Honolulu. Non sbagliavano.
Già alla fine di quell’anno, Matt si trasferì in Corea, militando nei Hyundai Skywalkers. Le sue doti non sfuggirono ad una società italiana nota da sempre per aver lanciato tanti giovani giocatori stranieri di prospettiva: la Tonno Callipo Vibo Valentia, dove Matt arrivò nel 2010. Eppure quell’anno fu molto complicato. Michael Anderson, il padre, morì mentre lui era ancora in Corea: una perdita di cui probabilmente Matt, il più giovane della famiglia (ha tre sorelle e un fratello maggiori) accusò il colpo più di tutti. Elaborò il lutto a 23 anni, distante da casa, da solo in un paese diverso; fu forse l’inizio di un momento psicologicamente complicato, che poi si sarebbe palesato quattro anni dopo.
L’impatto con Vibo e il campionato italiano fu molto buono. Matt in attacco, al servizio e a muro si fece valere, così come in seconda linea: evidenziò insomma quell’universalità di bagaglio tecnico da sempre matrice della scuola pallavolistica americana. Concluse l’annata col 30% in ricezione, il 50% in attacco. Ma più di tutto stupì il suo saper essere uomo squadra: un ragazzo umile, conscio di dover imparare molto ma con un atteggiamento sempre positivo e costruttivo.
Non ci volle molto perché una big come Modena gli mettesse gli occhi addosso. Lui ricambiò con una stagione ottima, che lasciava presagire un lungo percorso nel nostro campionato, di cui era già diventato uno degli stranieri più amati. Invece arrivarono le sirene russe dello Zenit Kazan. Lì Matt diventò fin da subito una delle pedine fondamentali di una compagine che avrebbe fatto razzia sia in patria che in Europa, composta da fenomeni del calibro di Wilfredo Leon e Maxsim Michajlov. Il suo palmares parla infatti di cinque campionati, quattro Coppe di Lega, cinque SuperCoppe, ma soprattutto ben quattro Champions League. Tre di queste, vinte contro squadre italiane: Trento, Perugia e Civitanova. Matt fu utilizzato a volte in posto 4 a volte in posto 2. Per quanto a volte soffrisse quando chiamato in causa in ricezione, fu chiaramente tra i grandi protagonisti di un ciclo inimitabile, della squadra più forte del decennio.
Messa così, la sua pare una storia vincente e perfetta. Invece a ottobre 2014 Matt, reduce dalla vittoria nella World League con la sua Nazionale, chiese ed ottenne di prendersi una pausa. Non per infortunio, stress o altro, ma per un semplice dato di fatto: era depresso.
Quella parola che non si può dire, che non dovrebbe essere pronunciata per molti nello sport, quasi fosse un tabù, Matt la pronunciò. La morte del padre lo aveva reso ancora più legato alla famiglia, da cui era distante da tanto, troppo tempo. Non dette la colpa all’ambiente di Kazan (per quanto, notoriamente, non proprio un parco divertimenti come qualità della vita) ma ad un sovraccarico: al fatto che la pallavolo, ad un certo punto, fosse diventata l’unica cosa nella sua vita. Al di fuori di schiacciare ed attaccare, attaccare e schiacciare, non gli sembrava esistesse altro.
Non era il primo pallavolista a parlare apertamente (l’azzurro Marco Meoni fu esemplificativo) ma di certo il suo caso fece sensazione, stupì e sorprese il pubblico. Il che non fa che ricordarci come vi sia sempre un’enorme differenza tra ciò che vediamo e la realtà. Matt Anderson, 2 metri, viso da Clark Kent, sorriso da bravo ragazzo di quelli che ogni mamma spera di avere come fidanzato della figlia, si scoprì in difficoltà: «Da quando gioco ho sempre viaggiato: prima ero in Corea del Sud, poi in Italia e adesso in Russia, e soprattutto ho smesso di vedere la mia famiglia, che per me è sempre stata molto importante. Ho cominciato a sentire disagio e i continui viaggi mi hanno fatto raggiungere un punto critico».
Nel mio piccolo, sono stato per tre anni tra i pro come scoutman. Chi pensa che atleti e professionisti dello sport facciano una bella vita o crea paragoni con operai siderurgici, fa un torto all’intelligenza. I ritmi di vita non sono facili, così come le pressioni, le aspettative; il dover cambiare città anche ogni anno per scelte societarie e professionali. La vita sociale è quella che è, quella sentimentale e affettiva è faticosa. Devi sempre adattarti, ricominciare da zero, senza che sia stata magari una tua scelta o qualcosa che volevi. Culture, usanze e regole diverse. Rispetto alle persone “normali” hai un ritmo di vita opposto: loro staccano la sera e il weekend, tu in quei giorni devi dare il 200%. Questo è un discorso che non ha riguardato solo Matt, ma anche sportivi come Adriano, Buffon, Phelps, Agassi, Williams… giocare per diletto è una cosa, essere professionisti un’altra. Si tratta di stare lontani dalla famiglia, abbracciare una solitudine che spesso ti opprime, silenzi da riempire, mille pensieri che a volte ti affollano la testa e che alla base hanno “e se…?”.
Ci sono passato, permettetemi la digressione personale, e non è stato semplice. E non avevo neanche lontanamente le pressioni che un giocatore come Matt aveva, né il suo vissuto, il suo sentirsi naufrago dentro la nave di qualcun altro.
Alla fine però Matt si è ripreso, è tornato ad essere il mazziere a stelle e strisce; è tornato a Modena nel 2019: un avventura conclusa anzitempo per colpa del COVID e delle ristrettezze economiche della società gialloblu.
Lo scorso anno è diventato papà di Jamie e ha sposato la stessa estate la sua compagna. Pare tornerà dei nostri, e sarà un punto di riferimento. Come lo è stato per la Nazionale americana che, anche grazie a lui, ha assorbito il ricambio generazionale di Stanley e soci.
Tutti ricordano il filo da torcere che diede alla nostra Nazionale in semifinale a Rio de Janeiro nel 2016, il sollievo che provammo quando finalmente riuscimmo a tenerlo a muro, a costringerlo all’errore: l’Italia di Chicco Blengini ebbe la meglio, al termine di uno dei match più belli mai visti sotto i cerchi di un’olimpiade. Gli USA conquistarono la medaglia di bronzo.
Ora anche per lui l’appuntamento è a Tokyo: un’altra occasione per fare la storia, magari per una rivincita contro di noi. Se fosse in finale sarebbe bellissimo e già sappiamo che, magari, qualche tifosa nostrana si troverebbe in bilico su chi tifare a causa sua, del Capitan America.
Sono 34 oggi. Tanti Auguri Matt Anderson.