Talento e agonismo: il palleggio di Valerio Vermiglio
Ci sono giocatori che sono diversi da tutti gli altri. Per carattere, per attitudine, per stile, per modo di stare in campo. Sono quelli che si fissano nella memoria, che tu voglia o meno.
Lui è stato, ed è ancora, uno di quelli. Valerio Vermiglio da Messina, è stato uno di quei palleggiatori capaci di essere protagonisti in tutto e per tutto, nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista.
1 metro e 90, 85 kg, doti atletiche di assoluto livello. Prima di lui tanti registi avevano calcato il campo sì con dedizione, impegno, talento e classe; ma in un certo senso rimanendo sotto le righe, quasi a lasciare agli altri i riflettori, l’onere (o onore) di essere trascinatori, leader, mattatori.
Pochi palleggiatori hanno avuto la sua capacità di abbracciare l’agonismo senza remore o pentimenti; pochi sono stati capaci di esibirsi in una pallavolo sovente audace, spettacolare, rischiosa.
I grandi palleggiatori italiani, spesso, si sono affermati in virtù di una grande tecnica, di una grande capacità di leggere il muro, ma bene o male erano anche costanti, disciplinati. Lui sovente in campo si prendeva dei rischi incredibili, osava, andava ben oltre quello che si era visto fare.
Ma parlare di Valerio, vuol dire comunque partire da un presupposto: egli è stato uno degli ultimi palleggiatori dotati di un tocco pulito, sopraffino, scolastico si sarebbe detto una vota. In una pallavolo che proprio mentre lui era all’apice, con Treviso, è diventata sempre più permissiva, sempre più tollerante verso doppie e tocchi sporchi da parte dei registi, ed in cui nel suo ruolo anche top club o nazionali di grande prestigio, ha visto deteriorarsi la caratura di chi era chiamato a distribuire palloni.
Certo, non sempre è stato rose e fiori tra Vermiglio e la pallavolo; ma più che la pallavolo in generale con i colleghi, gli avversari, gli allenatori ed il pubblico. Perché avere un carattere estroso e viscerale, dentro e fuori dal campo, ha sicuramente dei pro, ma anche dei contro.
Non sempre, per citare ciò che cantava Fabio de Luigi nella bella e nostalgica tv di quegli anni, c’è stata “simpatiah tra di noooiihh”. Perché Vermiglio fin dagli inizi da professionista, dopo essere stato scoperto dalla fu Sisley Treviso nella Zanclon Messina, fin dai primi anni in Veneto (e proseguiti a Salerno, Falconara, nella mia Padova, a Parma, prima di tornare alla Ghirada e diventare la mente di una delle squadre più forti di sempre), in campo ha abbracciato una dimensione che più che italiana, potremmo quasi definire latina.
L’avversario qualche volta è parso diventare sovente un nemico. In partita Valerio non si risparmiava mai, anche a costo di destabilizzare. Pareva essere nella pallavolo, ciò che gli argentini spesso sono nel calcio.
Qualcuno, vi ha sovente visto protagonismo. Ma forse, più che protagonismo, vi era il fatto di prenderla molto ma molto sul personale, di vivere il tutto quasi fosse uno sport individuale.
Eppure, questo suo limite, sovente è stata la sua più grande forza. Finale dell’Europeo del 2005, quando nel secondo / terzo set eravamo in bambola, eravamo come Jake La Motta in Toro Scatenato: presi a sassate dai russi, annichiliti dal loro servizio, dal loro attacco, dalla battuta. Umiliati davanti al nostro pubblico.
Tutti in campo e fuori parevano affranti, spezzati. Tutti tranne lui. E Montali ovviamente. Ma era a lui in campo che mentalmente ci si affidò e fu sempre lui, nel quarto set, a dare nel suo piccolo un segnale chiaro. Arrivarono due palle a filo rete, dove si era guardati a vista da Egorgev a Khazakov, due torri allucinanti, e fu allora che Valerio tirò giù due attacchi di prima intenzione di fila. Gli altri azzurri in campo avevano una faccia come dire “ma questo è matto!”.
Da lì la squadra ripartì, per poi conquistare la vittoria.
Quel “matto” Valerio se lo sarebbe visto affibbiare tante altre volte, anche da giocatore affermato, da palleggiatore tra i più stimati e famosi del mondo. Ed è quel tipo di pazzia che spesso ti serve, quel tipo di giocatore che spesso ti serve. I “matti” come lui, gli agonisti come lui sono quelli che nei momenti più impensabili, quando si fa dura, trovano motivazioni e stimoli che gli altri non hanno.
La carriera di Valerio del resto parla chiaro. Cinque scudetti, una marea di Coppe e Supercoppe italiane, e poi la dimensione europea: le due Coppe Cev, la Supercoppa Europea, la Champions League, che ha portato a casa ben tre volte. Le prime due con Treviso, l’ultima con lo Zenit Kazan, in quella corazzata dove arrivò dopo gli anni alla Lube; meno vincenti di quanto sperasse forse, tra lo scetticismo e anche gli sfottò di molti, che gli davano del finito, del bollito, del vecchio. E lui vinse pure il campionato russo, dimostrò a tutti che si sbagliavano.
La sua longevità sportiva è assurda ed è indice non solo di passione, ma anche di dedizione, di disciplina. Anche grazie a quelle doti era diventato un punto di riferimento unico per la Nazionale. Ripenso, nei miei ricordi di ragazzo di non ancora 20 anni, al rimpianto per quell’argento Olimpico ad Atene, ai due meravigliosi ori Europei. Il secondo, a Roma, ancora l’ultimo oro portato a casa dagli azzurri. Un caso che ci fosse lui a palleggiare in campo?
L’azzurro a Vermiglio ha donato molto; raccolse ancora giovanissimo il testimone di gente come Tofoli, De Giorgi, Meoni con cui condivise due Olimpiadi. Non deluse le aspettative, ma certo in alcuni momenti gli arrivarono anche critiche per lo stile di gioco, per come talvolta parve mettere da parte i centrali, abbracciare una regia forse troppo testarda ed integralista. Almeno da fuori sembrava spesso così. Della Nazionale fu infine Capitano; ma fu anche indicato come uno dei maggiori co-responsabili del naufragio del progetto tecnico di Montali, con polemiche che poi si crearono anche durante il ciclo di Anastasi, con lui che denunciò di essere stato messo da parte senza riguardo per ciò che aveva fatto.
Qualcuno disse che era un palleggiatore ingombrante per carattere e personalità, ma vecchio nello stile, troppo prevedibile. Valerio, dal canto suo, ha continua a vincere, a giocare, ad andare per la sua strada a dispetto di tutto e tutti, sempre coerente con se stesso, con ciò che è stato, con la sua storia, senza rinnegare niente. Sempre se stesso.
Il che, in un paese di trasformisti, non è cosa da poco conto. Per questo, anche per questo, uno come Valerio manca alla nostra Serie A, in cui divi ne abbiamo alcuni, ma personalità vere un po’ poche.
Sono 45 oggi. Tanti Auguri Valerio Vermiglio, il palleggiatore di fuoco.