Lo sguardo perso nel vuoto di Andrea Sartoretti

Giulio Zoppello

Atene, 29 agosto 2004, Finale delle Olimpiadi. Italia e Brasile si stanno prendendo a pallate da più di un’ora e mezza. I carioca conducono per 2 ad 1 e nel quarto set sono avanti 24 a 22. La partita è sempre stata più dalla loro parte fin dal primo set, i ragazzi di coach Montali non sono mai riusciti a mettere un freno al ritmo dei loro avversari, guidati da Bernardinho.

A livelli di singoli non ci sarebbe partita. A livello di sistema di gioco e intensità di squadra, sono loro i più forti invece, i più moderni, sono asfissianti e viscerali.

Palla del match, che vale l’oro, che viaggia verso lui, verso Giba in posto 4. Muro che non prende abbastanza diagonale, lui si infila nella stretta. Il pallone è una cannonata, Pippi lo tiene come può ma la difesa non è sui tre metri; la sfera arriva vicino all’asticella dove ci sta lui, ci sta quel ragazzo che ha gli anni di nostro Signore, che altro non può fare che saltare, sperare che i suoi 194 cm bastino.

Andrea Sartoretti da Perugia salta, salta come non ha mai saltato in vita sua.

Ha cominciato a saltare tanti anni prima Andrea, in quel di Città di Castello, piazza che da sempre al pallone rigato regala soddisfazioni e ha dato più di qualche interprete interessante anche in tempi recenti. Nel 1987 è il più promettente dei giovanili, è un mancino che magari non ha tutta questa fisicità ma sopperisce con un’atleticità mostruosa, con un braccio sinistro che è una frustata in viso, con killer instict e con un servizio che diventerà leggenda.

Dicono non ci fosse abbastanza spazio in palestra per fare la rincorsa dritta quando cominciò, altri che invece si trovasse meglio così. Leggende, dicerie, sussurri di una paura senza nome ma che poi il nome ce l’aveva: il Sartoace.
Quando esordiva nel 1988 a soli 17 in A2, si fa subito notare. È solo questione di tempo prima che arrivi in massima serie, nel 1990, l’ultimo anno a Città di Castello, prima di andare a Ravenna, in una delle corazzate per eccellenza del volley mondiale di quegli anni.

In quel periodo il ruolo dell’opposto comincia a cambiare. Da noi ci sta sempre sua maestà Zorro Zorzi, alto, longilineo, bellissimo da vedere, completo, un Gesù Cristo molto incazzato per così dire. Potente e concreto. Poi ci sta anche il Paso, che se n’è andato troppo presto: Il Dario Hubner della pallavolo, brutto, sporco e cattivo, il bomber di Provincia che non puoi non amare, con quel non so che di opposto di sana ignoranza. Poi c’è Giani, che in realtà può giocare titolare in ogni ruolo.

Ma Andrea Sartoretti è diverso. Pare il desiderio esaudito di chi sogna da anni di avere un cubano dal sangue italico. Lui è la risposta. Lo è per elevazione, per quel servizio che lo fa soprannominare Sartoace, il più terrificante della pallavolo italiana di sempre. Salta come un grillo, consola chi ha invidiato per anni ai caraibici el Diablo Joel Despaigne.

Ma soprattutto Andrea è un grimaldello per il muro-difesa avversario. Con lui puoi giocare una pallavolo che va ad una velocità assurda: in pratica gli alzatori con lui negli anni avranno a disposizione quasi un primo tempo aggiunto. Inutile dire cosa significhi questo negli anni di Ravenna: un contributo via via sempre più essenziale per la conquista di ben tre Coppe Campioni e due Supercoppe Europee.

In quel triennio arriva anche in Nazionale, si aggiunge alla Generazione di Fenomeni, di cui rappresenta la seconda ondata. Parte proprio dal 1994, successivamente alla conquista del secondo titolo mondiale, il suo percorso in azzurro. Chissà se ci pensa in quei punti finali ad Atene, chissà se ci pensava pure a inizio match, alla World League del 1994, a cui seguì quella del 95, 96…e poi i mondiali del 1998. Lì in finale vi era Giani in posto 2.

Pure nell’altra finale, quella che nessuno ricordava con piacere, ad Atlanta, vi era un altro in posto due: Zorzi.
Polemiche, veleni, osservazioni sul fatto che non gli entrava il servizio, il nuovo corso della pallavolo veloce non convinceva tutti. Si parlò secondo molti di lui e Zorro per non parlare del grande assente, di Vullo. Pure lì era finita male, argento piombato di quelli che ti inseguono di notte mentre dormi, contro i fortissimi olandesi.

La palla difesa da Pippi intanto va in alto, sempre più in alto, lui la cerca con la mano destra. In alto andavano anche gli jugoslavi in quel di Sidney 2000, quando la banda di Anastasi tirava sassate a tutta alé dal servizio, si aggrediva sempre, lui era la punta di lancia. Tutto bene, nonostante tanti errori, fino alla semifinale. Lì la banda balcanica mette a nudo le loro crepe, il bronzo conquistato molti manco lo vogliono tener addosso. Lui lì era al top, veniva da anni fantastici, da un’altra Champions vinta tra i gialloblu di Modena, nell’anno del suo primo ed ultimo scudetto.

Fermarlo a muro era un casino. Pensavi di avergli tenuto la diagonale e lui tirava ancora più diagonale, pensavi di aver preso il tempo bene e lui ti faceva lo stesso mani out. C’erano ricettori che stavano ore davanti ai VHS e primi DVD per memorizzare le sue traiettorie dai nove metri. Inutile. Era come cercare di prendere un missile cruise, una freccia avvelenata. Prima o seconda linea cambiava niente, era un’ossessione per chi lo aveva di fronte.

Negli Europei del 99 e 2003, nelle World League è sovente l’arma finale, lo è anche in campionato, non solo perché è il miglior battitore di sempre, ma perché in perfetta armonia con il corso della nuova pallavolo, che chiede intensità, velocità, un sistema di gioco dove la palla corre come un razzo in almeno due delle direzioni a rete.

Dal 2001 al 2004 è nel colmo della maturità, è stato MVP agli Europei e nella World League, è un personaggio anche internazionale, è un’icona da esportazione. Quando sulla panchina azzurra arriva Montali, su di lui verte una buona fetta del gioco offensivo. Bene o male è l’unico veramente inamovibile assieme a Valerio Vermiglio. Sono una diagonale bestiale che ci guida a quella finale. Ma non basta lui, non bastano Giani e Papi e Fei e Tencati e gli altri entrati. Il Brasile è una frazione più moderno, un pelo più veloce, un attimo più coeso. Ma basta.


Andrea Sartoretti guarda quel pallone che si avvicina all’astina. Troppo. Lo prende ma nel farlo tocca quella stanga bianca e rossa. Non può evitarlo. Fallo d’invasione, punto per Giba e soci. Significa 25 a 22. Significa che, ancora una volta, il sogno dai cinque cerchi si è fermato.

Andrea si guarda attorno, cerca di protestare come può, di ingannare la signora sportiva con la falce che si materializza con il fischio. Poi anche lui abbassa la testa. È finita, stavolta è veramente finita. Chissà a cosa pensa. Chissà se pensa che alla fine, tutti quegli ace con la rincorsa storta, quei muri, quegli attacchi izquierdi se ne andranno come lacrime nella pioggia, come non fossero mai esistiti. Sul podio, le facce più scure che abbiano mai indossato una medaglia.

Chiude in quel momento dopo dieci anni e 328 presenze con la Nazionale. Ha saltato ma non è bastata per battere la malasorte carioca. Il suo braccio punirà ancora. Dopo Modena arriverà Montichiari, Cuneo, Trento, poi gli ultimi 4 anni a Modena, dove oggi è general manager.

Eppure, per tutti, per chiunque ami la pallavolo, quella fronte alta e stempiata da sempre, quel fisico magro e quel volto appuntito da personaggio anime, rimangono qualcosa di iconico, appartengono ad uno dei più spettacolari, iconici e innovativi giocatori che la pallavolo italiana abbia mai avuto.

Sono 50 oggi. Tanti auguri Andrea Sartoretti. La Mano Sinistra del Diavolo.